Imperatore · Eneide · Tiberio



Yann Allard-Tremblay      

Ave Ottaviano Giulio Cesare Augusto!
Innanzi tutto, ho guardato qualcuna delle tue altre lettere ed ho notato che firmavi IMP. CAES. AUG.. Eppure, mi sembra di aver letto che avevi sempre rifiutato il prenomen di "Imperatore".
Venendo allo scopo di questo plico, mi piacerebbe sapere in che rapporto eri con Publio Virgilio Marone. Ho sentito dire che lo avevi ricondotto dalla Grecia, ove aveva preso la malaria, e che gli avevi impedito di bruciare l'Eneide.
Gradirei anche sapere se chiamavi davvero Tito Livio "il Pompeiano" e se era uno dei tuoi amici.
La mia ultima domanda verte sulla tua legge contro l'impudicizia. Vorrei sapere che cosa ci sia di male in questo.
- Yann
Vale !



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto a Yann, salve.

Quando si pongono troppe domande allo stesso tempo, le si condannano quasi tutte a delle risposte laconiche, ad eccezione, forse, di quella che tocca più da vicino la sensibilità dell'interlocutore. Nel tuo caso, l'eccezione non è nemmeno costituita da una vera e propria domanda, ma dal dubbio irragionevole al quale alludi nella tua premessa.

Ho rifiutato, è vero, un grandissimo numero di onori che mi erano stati tributati dal Senato di Roma al termine della guerra contro i pirati di Sicilia ed al termine di quella Aziaca. Nella prima occasione, avevo anche rifiutato il sacerdozio di Pontefice Massimo che mi volevano conferire lì per lì; ma era in effetti più giusto lasciare tale sacerdozio a Lepido, che ne aveva formalmente ancora diritto, anche se il suo tradimento lo aveva fatto decadere dalla carica di Triumviro. Più tardi, ho altresì rifiutato il titolo di dittatore, che mi veniva offerto insistentemente dal popolo e dal Senato di Roma, l'anno dopo il mio decimo primo consolato; ed ho parimenti rifiutato il consolato perpetuo, così come tutti i consolati annuali che mi sono stati offerti per i diciassette anni successivi al mio decimo primo.

Ma il prenome Imperatore non l'ho mai rifiutato. Non avevo alcun motivo di oppormi ad esso, poiché era del tutto compatibile con le tradizioni dei nostri avi, mentre avevo, per contro, almeno due ottimi motivi per accettarlo con gioia.
Innanzi tutto, si trattava della più alta e formale attribuzione permanente di un titolo, quello di imperator, cui ambiva ogni comandante romano. Da innumerevoli secoli, infatti, esso era considerato l'onore più prestigioso cui poteva sperare un comandante in capo, poiché esso testimoniava che gli uomini di quest'ultimo ne avevano apprezzato la capacità di comandarli (imperare) e di assicurar loro la vittoria. Anche il pavido Cicerone, arrogante ed astuto assertore del primato della toga sulla forza delle armi, rimase estasiato dalla contentezza quando i suoi soldati lo acclamarono imperator, in seguito ad una felice scaramuccia ch'egli aveva condotto durate il suo proconsolato in Cilicia. Nel mio caso, sono stato salutato imperator 21 volte. Ma, per il prenome Imperatore, non furono solo le mie legioni e gli equipaggi delle mie flotte ad acclamarmi in tal modo: fu il popolo di Roma e dell'intera Italia.
In secondo luogo, questo prenome Imperatore era già stato attribuito dal Senato a mio padre, il divo Giulio Cesare, nell'anno del suo quarto consolato; e, con lo stesso decreto, il Senato aveva stabilito che quel prenome onorifico fosse trasmissibile di padre in figlio. Avevo dunque degli ottimi motivi per considerare che vi avevo diritto in quanto figlio unico ed erede legittimo del divo Giulio.
Per tutti questi motivi, checché ne dicano i testi che "ti sembra" aver letto, ho assunto il prenome Imperatore a partire dal mio quinto consolato, nell'anno dei miei tre trionfi, e l'ho conservato ininterrottamente durante tutto il mio principato, cioè per 43 anni.

Vediamo allora, brevissimamente, i tuoi altri dubbi.
Ho conosciuto Publio Virgilio Marone molto prima che scrivesse l'Eneide. Ho sempre amato i suoi versi, e Virgilio ne ha approfittato, una volta, facendomi ascoltare tutte le sue Georgiche per quattro giorni di seguito, in occasione di una sosta che avevo fatto ad Atella verso la fine del mio viaggio di ritorno a Roma dopo la conquista dell'Egitto. Dopo di che, ha frequentato piuttosto spesso la mia casa, e ciò mi ha consentito di seguire abbastanza da vicino la sua composizione dell'Eneide: un capolavoro immortale, che nessuno avrebbe mai potuto sognare di bruciare.

Quanto a Tito Livio, gli ho sempre manifestato il mio apprezzamento e la mia ammirazione per la lucidità, la perspicacia, la passione, il rigore, la dedizione e la perseveranza che ha dimostrato nello scrivere la sua storia colossale "ab Urbe condita". Avrei certamente potuto definirlo, paradossalmente, un "pompeiano", se avessi voluto sottolineare che aveva redatto la sua ricostruzione storica in modo obiettivo, dando il giusto risalto a tutti i meriti, anche quando parlava di coloro che avevano combattuto fra le sinistre fazioni degli avversari di Cesare. Ma non potrei ricordarmi se mi è realmente accaduto di definirlo in tal modo. In ogni caso, ciò non ha molta importanza, poiché si sarebbe trattato di una battuta occasionale, e non di una specie di soprannome permanente che davo allo storico, come sembri credere.

Infine, la legge contro l'impudicizia è stata una delle numerosissime leggi mediante le quali ho restituito la sicurezza, la potenza e la dignità al popolo Romano. Non vedo perché le attribuisci un'importanza maggiore delle altre, mentre mi poni la domanda: cosa c'è di male in questo? Nella legge, assolutamente nulla. Nell'impudicizia, ogni popolo può giudicarla secondo i suoi propri costumi. D'altronde le domande di questo genere, su ciò che è bene e ciò che è male, bisogna porle ad un filosofo, e non ad uno statista. Un principe non può imporre a tutti i cittadini di essere buoni o cattivi secondo il suo proprio giudizio, ma ha il dovere di fare in modo che le regole fondamentali della società non siano violate da comportamenti che possano turbare i sentimenti della popolazione o incoraggiare l'abbandono delle tradizioni più auguste, sulle quali si basano il vigore e la vitalità della Repubblica.

Vale,

IMP. CÆS. AVG.



Yann Allard-Tremblay      

Ave Imperatore Cesare Augusto!

Non ho voluto in alcun modo dubitare di te. Perdona la mia lettera se arrecò in qualsiasi modo dei dubbi sulla tua persona. Cercavo solo d'informarmi presso la persona più idonea a fornirmi delle risposte giuste e veritiere, id est te stesso. Chi, infatti, fra uno storico o il figlio del Divo Giulio potrebbe meglio informarmi sulla vita d'Augusto? Non potresti essere che tu, giacché è la tua propria vita. Ti riverisco ed ammiro, e non cercavo proprio a dubitare di te.

Per quanto concerne il prenome Imperator, mi sono indubbiamente sbagliato con uno dei tuoi successori che l'ha rifiutato, o con un altro titolo: molti furono quelli che ti attribuirono, e molti quelli attribuiti ai tuoi successori. Perdona il mio errore.

Per Virgilio, la tradizione vuole che, essendo malato e delirando, egli avrebbe voluto bruciare l'Eneide non avendo il tempo di ultimarla prima della sua morte, e che fosti tu ad impedirglielo. Anche in questo caso, non facevo altro che verificare delle informazioni presso di te: non prendere le mie domande per dei dubbi, te ne prego.

Per ogni altra cosa che abbia potuto contrariarti, sono indubbiamente i secoli che hanno modificato i fatti ed alterato la storia.

Tuttavia, Cesare, gradirei porti un'altra domanda. Come ti ho detto, ti ammiro ed apprezzo molto di poterti rivolgere la parola, ed in nulla vorrei contrariarti.

A lungo, per la tua successione, preferisti molti dei tuoi figli (o discendenti) a Tiberio. Prima Marcello, poi Lucio e Gaio Agrippa, quindi Postumo e Germanico. Ciascuno di essi essendo morto (perdonami di ricordarti questi drammi), non rimaneva che Tiberio. Sembra ch'egli fu, in qualche modo, la tua ultima scelta. Si racconta anche che avresti detto, sul tuo letto di morte, vedendo Tiberio: "Verso quali terribili fauci su dirige Roma", o una frase di questo genere; ancora una volta, sarà indubbiamente stata la tradizione a distorcere e gonfiare le cose. Vorrei che tu mi dicessi cosa pensavi di Tiberio, e come ti sentivi nei confronti della sua ascesa alla tua successione.

Vale Imperatore Cesare Augusto, figlio del Divo Giulio!



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto a Yann, salve.

Quanto si è raccontato su Virgilio non è del tutto falso. Ma, per farti ben distinguere la realtà dalla leggenda, occorre ch'io ti dia qualche informazione supplementare, poiché la mia prima risposta, che era necessariamente molto breve, si limitava ai soli aspetti essenziali.
Il progetto di redigere un grande poema epico latino sulla navigazione di Enea e sul suo sbarco sulle coste del Lazio era stato messo a punto nel corso delle conversazioni che avevo avuto con Virgilio e Mecenate sulla Via Appia, in seguito al breve soggiorno ad Atella di cui ti ho parlato. Il poeta, che aveva appena terminato le Georgiche, iniziò così la composizione dell'Eneide nell'anno dei miei tre trionfi (1), quando avevo chiuso per la prima volta le porte del Tempio di Giano.

Negli anni seguenti, egli si recò diverse volte in Campania ed in Sicilia, per conoscere bene i luoghi più importanti ov'era passato Enea con la sua flotta. Ma poté comunque tornare abbastanza frequentemente a Roma, per dei brevi soggiorni nella casa che gli avevo fatto acquisire sull'Esquilino. Ciò gli consentì di venire molte volte da me, per darmi notizie sull'avanzamento del poema e per discutere talvolta su alcuni aspetti per i quali ricercava il mio parere.
Tuttavia, egli non volle mai farmi leggere i versi che aveva composto fintanto che il poema non fu ultimato. Ad esempio, durante la mia permanenza in Spagna per la Guerra Cantabrica, durante i miei consolati ottavo e nono (2), gli scrissi molte volte cercando di convincerlo, con delle preghiere o delle minacce, ad inviarmi qualche capitolo da leggere; ma egli rimase fermissimo nel suo rifiuto.
Quando infine l'intera opera fu completata, poco dopo il termine del mio decimo primo consolato (3), Virgilio portò da me il suo manoscritto, di cui ci lesse egli stesso molti capitoli, con la sua voce piacevolissima ed la sua intonazione incantevole. Queste letture suscitarono un'enorme emozione presso tutta la mia famiglia, che era da poco stata dolorosissimamente provata dalla perdita del mio nipote e genero Marcello.

L'estate seguente intrapresi un viaggio che dalla Sicilia doveva condurmi in Oriente. Poco dopo Virgilio partì per la Grecia, intenzionato a proseguire il suo viaggio verso l'Asia Minore, al fine di verificare ancora alcuni dettagli che gli servivano per l'Eneide. In effetti, avendo deciso di dare gli ultimi ritocchi alla sua opera prima di pubblicarla, vi aveva soppresso alcuni versi che avrebbe dovuto sostituire con altri più appropriati. Ma ci incontrammo ad Atene quando ero già di ritorno dall'Oriente (4), con le famose insegne romane che mi erano state restituite dai Parti. Il poeta aveva un aspetto piuttosto affaticato e si lasciò facilmente convincere a rientrare con me a Roma. Tuttavia iniziò a sentirsi male quando passammo da Megara, e si aggravò durante la navigazione per l'Italia.
Ci fermammo allora a Brindisi, ove eravamo sbarcati. In tale situazione, qualcuno raccontò che, durante un incubo notturno, Virgilio avrebbe esclamato che occorreva bruciare l'intero suo manoscritto, poiché era ancora troppo imperfetto, e che tale decisione avrebbe dovuto essere aggiunta al suo testamento. Alcuni dei suoi amici furono molto impressionati da questa notizia, ch'essi presero subito per buona, ed iniziarono a sostenere che bisognava rispettare la volontà dell'autore del poema, quale che ne fosse il prezzo. Altri, più accomodanti, espressero dubbi sulla veridicità delle frasi riportate dai testimoni, che avrebbero potuto ingannarsi a causa dell'alterazione della voce del malato.

Dovetti dunque intervenire, dicendo che quanto aveva detto il poeta durante la malattia non aveva alcuna importanza, poiché avevamo il dovere di rispettare le volontà ch'egli aveva espresso fintanto che era stato perfettamente lucido. E non avevo alcun dubbio che, prima della sua malattia, il nostro Publio Virglio Marone, non più di qualsiasi altra persona sufficientemente colta del nostro mondo, non avrebbe mai potuto sognarsi di bruciare un capolavoro di immenso, qual'era l'Eneide.

D'altronde non avrei mai accettato di lasciar bruciare l'Eneide nemmeno se il suo autore l'avesse richiesto esprimendo le sue ultime volontà mentre era perfettamente lucido. Avevo allora composto io stesso una poesia per sostenere questa tesi estrema, ed ero giunto a dire, fra l'altro: "Anche se abbiamo il dovere di rispettare le leggi, ed anche se la legge pretende di farci rispettare ciò che impone e comanda l'ultima volontà di colui che muore, ebbene: che tale legge venga violata e tutto il suo venerabile potere sia infranto, purché si possa sottrarre alle fauci di un solo giorno un'opera che è costata la fatica di tanti giorni e di tante notti". In effetti, Virgilio vi aveva lavorato per ben undici anni.

Poco dopo, il decimo giorno prima delle calende d'ottobre, sotto il consolato di Gaio Senzio Saturnino e Quinto Lucrezio Vespillone (5), il poeta rese la sua anima agli dèi immortali; e si ricongiunse con i suoi Mani avendo il conforto di sapere che il suo capolavoro gli sarebbe sopravvissuto.

Veniamo allora alla tua domanda su Tiberio.
In realtà vi ho già parzialmente risposto nella mia lettera XVII intitolata "I miei successori". Aggiungerò dunque solo pochissime cose.

Occorre innanzi tutto precisare che mi hai attribuito due lutti di troppo, giacché Postumo e Germanico sono morti sotto il principato di Tiberio. Debbo altresì precisare che Tiberio non rappresentava, come dici, "l'ultima scelta", poiché vi era Germanico, che era del tutto degno di assumere la responsabilità dell'Impero, benché fosse ancora così giovane. Era d'altronde altrettanto giovane di quanto lo ero stato anch'io quando avevo ricevuto l'eredità del Divo Giulio, in una situazione enormemente più difficile. Vi era anche il suo giovane fratello un po' malaticcio, ma ho preferito tenerlo fuori, per non esporlo a troppe critiche e cattiverie. Vi erano inoltre molti altri membri della famiglia che avrebbero potuto essere presi in considerazione, soprattutto fra gli altri figli e generi delle mie sorelle, di Antonio e di Agrippa. Vi era infine tutta la gioventù di Roma: se avessi trovato alcuni altri Romani che apparivano più degni di Tiberio, li avrei certamente accolti nella mia famiglia, con dei matrimoni e delle adozioni, e ciò mi avrebbe consentito di sceglierne uno come erede e successore. Vedi dunque che Tiberio è stato oggetto di una vera e propria scelta.

Cosa pensavo di Tiberio? Per giudicare le qualità d'un uomo, ci si basa normalmente sulla valutazione delle sue principali virtù, ad iniziare dalla Virtus vera e propria, cioè la valenza, alla quale i Romani hanno sempre attribuito la massima importanza. Sotto tale aspetto, Tiberio aveva chiaramente dimostrato, soprattutto nelle sue campagne militari in Germania, di saper affrontare coraggiosamente e con sicura efficacia delle situazioni particolarmente difficili, con dei rischi elevatissimi.
Parimenti, in tutte le altre missioni importanti e delicate che gli avevo affidato, nell'Urbe, in Italia e nelle province, egli aveva evidenziato di possedere ad un altissimo livello la Prudentia, la Gravitas, la Disciplina, la Iustitia e la Severitas, come ci si può attendere da un discendente d'una famiglia illustre, che è stata presente nel Senato da innumerevoli generazioni. E ancora, la sua lealtà ed il suo onore (Fides, Honos) non avrebbero mai potuto essere messi in discussione. Quanto alla pietà filiale, all'equità ed alla clemenza (Pietas, Aequitas, Clementia), sebbene egli non avrebbe mai potuto possederle al livello di eccellenza raggiunto dai Giulii, gli ho continuamente raccomandato di coltivarle con la massima perseveranza.

Inoltre, nonostante le scelte politiche piuttosto infelici che erano state compiute dal suo padre naturale e dalla maggior parte degli altri rappresentanti della gente Claudia, il nostro Tiberio era perfettamente convinto della necessità di proseguire la costruzione del principato e di rendere tale istituzione sempre più solida, al fine di mantenere la Repubblica al riparo dalla rapacità della vecchia oligarchia. Per tale motivo ho potuto fare la mia scelta in tutta tranquillità, dato che questo successore era naturalmente predisposto alla conservazione dello status quo.
Era proprio questo l'atteggiamento che giudicavo preferibile per il secondo principe, poiché questi avrebbe dovuto fronteggiare e neutralizzare le residue resistenze della classe senatoria. Non è che sul terzo principe che contavo per restituire alla costruzione del principato la necessaria creatività. E fu per tale motivo che feci adottare a Tiberio il promettente Germanico. Ma sarà poi, in realtà, il figlio di quest'ultimo che si troverà a ricevere questo gravoso fardello.

Occorre infine aggiungere che la semplice scelta del successore non era che un primo passo nella preparazione della successione. Se il mio giudizio su Tiberio mi aveva fatto assumere quella decisione, non era solo sulle qualità naturali del mio eletto che contavo, ma su tutte le capacità che gli avrei trasmesso io stesso.
In effetti, ho sottoposto Tiberio ad un lungo tirocinio, fornendogli tutte le conoscenze di cui aveva bisogno e conferendogli, poco a poco, sempre maggiori poteri, fino a farne il mio collega nel principato, come avevo fatto diversi anni prima con il mio rimpianto amico Marco Agrippa. Con questa accuratissima preparazione, quando venne il momento di cedergli l'intera responsabilità dell'Impero, fui certo che mio figlio Tiberio era perfettamente pronto ad assumerla.

Vale,

IMP. CÆS. AVG.

Note (dell'editore):
(1) 29 a.C.
(2) 26-25 a.C.
(3) 23 a.C.
(4) 19 a.C.
(5) 22 settembre 19 a.C.


quebec

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