I re e i Cesari



Fifi      

Non trovi che i tuoi successori (i Giulio-claudii) siano un po' "folli" e paranoici?
Immagino certamente che la vita da imperatore sia difficile!!
Però!! Sono diversi da te, o da Cesare !!
Rispondimi presto!!
Un ammiratore dell'antichità romana !!



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto a Fifi, salve.

In questa corrispondenza, ho già avuto qualche occasione di esprimere il mio pensiero sui miei successori. Potrai trovare un breve giudizio su ciascuno di essi nella lettera XVII che ha per titolo «I miei successori», mentre il mio parere più specifico su mio figlio Tiberio si trova nelle lettere XXXIV («Imperatore - Eneide - Tiberio») e XXXV-XXXVI (Tiberio 2»). Naturalmente ho avuto la possibilità di esaminare direttamente ed in profondità solo quest'ultimo, sebbene io abbia conosciuto anche il suo nipote malaticcio, fratello di Germanico, ed il figlio di quest'ultimo quando era ancora neonato. Le informazioni che ho ricevuto, da Dialogus e dalle altre fonti sublimi cui ho sempre avuto accesso, mi hanno comunque consentito di formarmi un'idea molto precisa su tutti i miei successori, e di darne un cenno nelle predette lettere.
Aggiungerò ora qualche altra considerazione, tenuto conto della disinformazione che ha evidentemente influenzato le tue opinioni.

Quando si giudica il valore di coloro che hanno rivestito le più alte magistrature della nostra città, occorre innanzi tutto esaminare quale sia stato l'effetto finale delle loro decisioni sulla vita del popolo romano e del suo impero, sul vigore dello Stato e sulla maestà di Roma. In secondo luogo, occorre verificare quale sia stato l'atteggiamento del popolo nei loro confronti, dato che i Romani hanno sempre avuto la capacità di riconoscere chiaramente e di apprezzare convenientemente coloro che li hanno governati con la massima attenzione all'interesse pubblico. L'amore del popolo è dunque un altro validissimo elemento da tener presente. Tutto il resto ha un'importanza molto minore, trattandosi di cronache, di aneddoti e di dettagli personali che possono essere eccessivamente influenzati dalle fandonie, dalle maldicenze e dai pregiudizi.

È d'altronde lo stesso ragionamento che facevamo alla mia epoca quando volevamo valutare il ruolo dei sette re di Roma nella storia della nostra città. Non disponevamo di molte testimonianze su quel periodo così lontano ed arcaico, ma conoscevamo sia il carattere di ciascun re, sia le opere principali che ciascuno di essi aveva compiuto.
Se li consideravamo dal lato peggiore, vedevamo che molti di questi re erano stati oggetto di critiche o di perplessità: Romolo, a causa di Remo; Numa Pompilio, per le sue relazioni con la ninfa Egeria; Tullo Ostilio, per la sua bellicosità; Lucio Tarquinio, per la sua tirannia. Inoltre, cinque re su sette erano stati privati del regno da un atto di violenza: Romolo, singolarmente scomparso proprio quando tutto il Senato voleva sbarazzarsene, Tullo Ostilio, fulminato direttamente da Giove in seguito ad una profanazione del culto, Tarquinio Prisco, ucciso dai complici dei figli di Anco Marzio, Servio Tullio, assassinato dai sicari di Lucio Tarquinio, e quest'ultimo, detto «il Superbo», cacciato dal popolo romano in rivolta.
Ora, questi soli dati avrebbero potuto farci sospettare che i nostri re furono tutti dei pessimi sovrani, se non avessimo conosciuto i grandi meriti della maggior parte di essi, ad iniziare dal divo Romolo, che fondò l'Urbe e creò il Senato ed il popolo dei Quiriti. In effetti, come avremmo potuto non onorare, ad esempio, il savio Numa, che stabilì il patto fra Roma e gli dei, Anco Marzio, che diede ai Romani l'accesso diretto al mare, e Servio Tullio, che estese la cinta della città ed il pomerio sui sette colli? Peraltro, perfino il settimo re, nonostante il suo atteggiamento dispotico, fu uno stratega illuminato ed un grandissimo costruttore di opere splendide, come il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, il Circo Massimo e la Cloaca Massima, che continuavano ad essere ammirate ancora alla mia epoca.
Per quanto concerne la stima di cui i re hanno goduto, ci risultava evidente che il popolo romano li avesse amati tutti, salvo l'ultimo: quel Tarquinio il Superbo la cui tirannia fu la sola causa del rigetto definitivo della monarchia a Roma. Inoltre, lo stesso popolo romano, che si era aggregato ed amalgamato un po' per volta a partire dalla fondazione della città, aveva già acquisito, alla fine della monarchia, tutte le virtù che dovevano consentirgli di spargere le sue leggi e la sua civiltà sul mondo intero. È per questo motivo che Tito Livio, nella sua storia ab Urbe condita, ne aveva concluso molto giustamente che la monarchia ebbe un ruolo indispensabile per la crescita e la maturazione del popolo. Fu, in effetti, grazie al loro governo sagace che i re poterono stabilire le basi della potenza romana.

Potremmo ora considerare secondo un criterio analogo il ruolo dei primi Cesari. Ma occorre innanzi tutto ricordarsi dei motivi per i quali si dovette pervenire ad una maggiore stabilità del governo della Repubblica, dopo oltre un secolo di lotte fratricide e devastanti. Da un lato, le divergenze fra il Senato ed il popolo romano avevano bisogno di essere composte risolutamente, allo scopo di salvaguardare l'interesse pubblico. Dall'altro, le enormi dimensioni raggiunte dall'impero avevano reso necessaria la presenza di un rappresentante permanente della maestà di Roma, per garantire, agli occhi di tutti, un'amministrazione equa e previdente.
Queste due importanti esigenze, affidate alle cure del principe del Senato, dovevano inevitabilmente urtarsi con gli egoismi della classe senatoria, che non era in alcun modo disposta a rinunciare ai suoi privilegi, né per tener conto della volontà del popolo romano, né - ancor meno - per il benessere delle popolazioni delle province e dei regni tributari.
Fintanto che esercitai io stesso il ruolo di principe, i senatori si astennero dal contrariarmi, poiché i vantaggi del nuovo ordine erano talmente evidenti, che nessun tentativo di ritorno indietro avrebbe mai potuto essere accettato dal popolo. Essi mi colmarono, allora, di onori, come avevano fatto con mio padre per giustificare il suo assassinio. Ma l'esperienza di quella tragedia mi consentì di scongiurare gli stessi rischi. Riuscii così a mantenere il controllo della situazione ed a evitare qualsiasi macchinazione contro di me, salvo qualche piccolo complotto che fu agevolmente smascherato.
Ero tuttavia consapevole del rischio d'una recrudescenza delle pretese senatorie con i miei successori. Fu per questo che affidai la mia successione diretta a mio figlio Tiberio, e lo preparai a governare con la massima prudenza, per non compromettere la sopravvivenza del principato. Posso assicurarti ch'egli non era affatto paranoico, ma solo cosciente degli enormi rischi che lo attorniavano. Dovresti sapere che rischiò molte volte di caderne vittima, sebbene si applicasse costantemente a non esporsi troppo.

Saprai anche che, per la successione a Tiberio, avevo scelto Germanico, che avrebbe dovuto rafforzare la posizione del principe al cospetto del Senato, sopprimendovi le residue velleità di restaurazione della vecchia oligarchia. Ma un sorprendente imprevisto ha alquanto alterato lo scenario che avevo previsto. L'anomalia è stata determinata dalle inattese ed inconfessabili ambizioni di Tiberio il giovane (colui che avete l'abitudine di chiamare, dal suo nome gentilizio, Claudio) e dalla morte prematura di suo fratello maggiore, il prode Germanico. Ciò provocò molte difficoltà ulteriori ed un considerevole prolungamento del periodo necessario per stabilizzare il principato.
Il giovane Gaio (1), figlio di Germanico, divenne il terzo principe ed iniziò ad assolvere ottimamente il compito che gli era proprio. Probabilmente l'avrebbe anche completamente ultimato se una cospirazione, ch'egli non avrebbe mai potuto sospettare, non l'avesse soppresso dopo meno di quattro anni di impero.
Suo zio Tiberio Claudio (2) gli successe dunque, sebbene si trattasse d'un uomo che non avrebbe mai dovuto rivestire alcuna magistratura pubblica, a causa delle sue menomazioni fisiche e della sua personalità indegna e scarsamente affidabile. Fu d'altronde per tale motivo ch'egli fu il solo nipotino di Livia che io non feci mai adottare fra la gente Giulia. Nonostante tutto, non governò troppo male, poiché poté contare sulla complicità del Senato e si appropriò di gran parte dei progetti civili e militari di Gaio, portandoli a termine.
Infine il giovane Nerone, nipote di Gaio, divenne il quinto principe. Ricevette inevitabilmente tutta l'ostilità del Senato, che riuscì, dopo quattordici anni, a sbarazzarsene. Ma egli aveva già realizzato delle opere importantissime, era stato straordinariamente amato dal popolo, proprio come suo zio, ed aveva a tal punto consolidato il principato che questa istituzione non venne mai più rimessa in discussione, né subito dopo la sua morte, né durante tutti i secoli successivi.

Lascio allora a te la cura di trarne le conclusioni.
Se non sei del tutto convinto, poniti quest'ultima domanda. Un secolo è trascorso dalla vittoria navale di Azio - che segna, in pratica, l'inizio della Pax Augusta e del mio principato - fino alla morte di Nerone. Durante questo secolo, l'impero romano è stato governato dalla serie di cinque principi di cui abbiamo parlato. Esso si è ingrandito, rafforzato ed arricchito, raggiungendo un eccezionale livello di prestigio, di potenza, di organizzazione e di benessere, come il mondo non aveva mai conosciuto in precedenza, e riscuotendone l'ammirazione, il rispetto e l'amicizia di quasi tutti gli altri popoli della Terra. Avrebbe forse potuto, questo impero, sbocciare con tale splendore se fosse stato governato, come dici, da principi «un po' folli e paranoici»?

Vale,

IMP. CÆS. AVG.

NOTE:
(1) L’imperatore Gaio, soprannominato nell'infanzia Caligola.
(2) L’imperatore Claudio.


quebec

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