Convegno Internazionale di Storia Militare
"Il Mediterraneo quale elemento del Potere Marittimo"
Venezia, 16-18 settembre 1996 (pagine 55-88).

Nascita ed affermazione del

Potere marittimo di Roma


di DOMENICO CARRO
  1. Premessa
  2. La fondazione di Roma e le prime esigenze marittime
  3. La prima Marina da guerra
  4. La supremazia marittima
  5. L'esercizio del potere marittimo
  6. Le grandi coalizioni marittime
  7. Il consolidamento transmarino
  8. La travagliata costruzione dell'Impero
  9. La Pax Romana
  10. L'esercizio del potere marittimo
© 1996 - Proprietà letteraria (copyright) di DOMENICO CARRO.
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SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home

I. PREMESSA


Il popolo romano si sviluppò e si espanse approdando su tutti i litorali del mondo allora conosciuto, e diffuse la propria civiltà in modo così profondo e duraturo, che, come dice Floro, "i lettori delle sue imprese non apprendono la storia di un solo popolo, ma del genere umano" [1].
Vi è qui un primo motivo d'interesse, direi universale, per le vicende navali dei Romani. Il nostro interesse dovrebbe poi acuirsi nel considerare che il principale teatro ed il cuore delle attività marittime di Roma era questo mare che la Storia collocò al centro del nostro mondo. L'interesse storico dovrebbe infine impennarsi vertiginosamente, per portarsi fino ai livelli estremi, nel constatare che i Romani sono stati: i primi a conseguire ed esercitare il potere marittimo sull'intero bacino del Mediterraneo (e ben oltre), ed i soli che siano mai riusciti a porre tale mare, per intero, sotto il proprio pieno controllo e sotto le proprie leggi, come accadde nel corso dell'intera durata dell'Impero.
Ed è del tutto appropriata, a questo proposito, la seguente osservazione di Michel Reddé: "On parle bien souvent de thalassocratie athénienne pour évoquer l'éphémère puissance navale de la cité de Périclès en mer Egée. Pourquoi ne parlerait-on pas de thalassocratie romaine pour désigner cette domination d'un peuple, unique dans l'histoire, sur toute la Méditerranée, pendant quatre siècles?" [2].

Vediamo bene che questo Impero non ebbe una natura continentale, ma una vocazione genuinamente marittima: fin dall'inizio della propria espansione, Roma si proiettò attraverso il mare verso sponde remote del Mediterraneo, di cui occupò progressivamente - sempre per via marittima - tutti i litorali, fino a fare di quell'ampio e bellicoso mare un placido "lago" interno brulicante di vita, di traffici commerciali e di ogni genere di altre attività marittime, come pesca, viaggi e diporto; ed anche quando le sue conquiste si addentrarono nel continente europeo, a partire dalla guerra Gallica, Roma trovò più connaturale varcare l'Oceano e sbarcare in Britannia piuttosto che concentrare lo sforzo delle sue legioni verso la Germania transrenana.
I Romani, quindi, pur compiacendosi delle proprie antiche origini pastorali ed agresti (con qualche nostalgia di maniera per i miti bucolici dell'età dell'oro), hanno evidentemente provato verso il mare una singolare ed inconfessata attrazione, che li ha indotti a farne il fulcro della loro grande strategia. Vi possono essere stati alti e bassi, qualche errore, qualche incoerenza, qualche ingenuità (la scarsità delle informazioni pervenuteci su molti periodi critici non ci consente, peraltro, di esprimere giudizi inappellabili), ma i risultati strategici, sotto l'ottica del potere marittimo, sono comunque inequivocabili. Vale quindi la pena soffermare l'attenzione sulla dimostrata capacità dei Romani di imporsi, sul mare, nei confronti di tutte le maggiori e certamente non remissive potenze marittime del Mediterraneo.

Nella redazione di questo breve saggio mi sono essenzialmente basato sulla ricerca bibliografica di tutte le fonti antiche utili ai fini della ricostruzione della storia navale e marittima di Roma [3], nonché sull'analisi degli eventi significativi attraverso i quali i Quiriti sono pervenuti a quel completo dominio dei mari su cui si è instaurata la Pax Romana [4].

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II. LA FONDAZIONE DI ROMA E LE PRIME ESIGENZE MARITTIME


La prima flotta di cui si parla nella storia di Roma è quella che, circa quattro secoli prima della fondazione dell'Urbe, approdò sul litorale laziale, ove sbarcarono i profughi troiani guidati da Enea, il mitico progenitore della stirpe regia di Alba Longa e, quindi, di Romolo, nonché della stirpe Giulia. Quanto quella stessa flotta venne incendiata dal nemico, la Madre degli dei volle assicurarne l'immortalità: le navi vennero infatti trasformate in divinità marine, analoghe alle Nereidi, che rimasero in quelle acque per proteggervi i naviganti; e non vi è motivo di credere che se ne siano mai allontanate. Gli antichi, pertanto, ebbero la possibilità di annoverare quella soprannaturale benevolenza fra i primissimi fattori del potere marittimo della nascitura Roma.

Il 21 aprile 753 a.C., secondo la ben nota tradizione, Romolo fondò Roma tracciandone i confini iniziali sul Palatino ed estendendola poi al Campidoglio, collocando in tal modo il cuore della Città Eterna sulla riva sinistra del Tevere, in corrispondenza dell'isola Tiberina, a breve distanza dal mare. Quella posizione si è dimostrata del tutto privilegiata, per il suo clima ideale, per la sua centralità (nella Penisola italiana e, quindi, nel Mediterraneo) e per quella sua particolare natura marittima efficacemente illustrata da Cicerone: "Avrebbe forse Romolo più felicemente potuto assicurarsi i vantaggi di una città marittima, ed evitarne al tempo stesso i difetti, che fondando una città sulle rive di un fiume perenne e costante, che si getta in mare con un'ampia foce? La città poteva ricevere dal mare tutto quello di cui aveva bisogno e dare, per la stessa via, ciò di cui aveva abbondanza. Per mezzo del fiume, essa non solo importava dal mare le cose necessarie alla vita, ma riceveva anche quanto era trasportato per via di terra; così che a me sembra che fin d'allora egli prevedesse che questa città sarebbe diventata un giorno la sede e il centro di un immenso impero" [5].

Per il collegamento fluviale fra la Città e il mare, era necessario il controllo della fascia costiera: questa venne conquistata dal quarto re di Roma, Anco Marcio (640-616 a.C.), a cui viene attribuita la costruzione di un porto alla foce del Tevere, ove lo stesso re fondò la colonia di Ostia, "facendo sì che Roma divenisse città non solo continentale, ma anche marittima" [6].

I commerci navali, indubbiamente avviati fin da quel secolo, raggiunsero sul finire del VI secolo a.C. un'estensione già significativa agli occhi di una potenza marittima di prima grandezza come Cartagine: fu infatti nel 509 a.C. - l'anno in cui fu console Lucio Giunio Bruto, il fondatore della Repubblica - che venne stipulato il primo dei Trattati navali [7] fra Roma e Cartagine. I Romani, quindi, avevano già allora dei ben precisi interessi sul mare: oltre alle esigenze di controllo della fascia costiera laziale, avevano traffici marittimi estesi alle isole maggiori ed al Nord Africa; sembra che essi si avvalessero anche, come suppone Polibio, di qualche nave da guerra, verosimilmente per la protezione di certe rotte commerciali contro gli attacchi dei pirati [8]. Circa un secolo e mezzo dopo il traffico mercantile romano doveva già interessare buona parte del bacino occidentale del Mediterraneo e, verso oriente, il mare Ionio, come risulta dal secondo Trattato navale con Cartagine, ratificato nel 348 a.C., e dal Trattato navale bilaterale stipulato con Taranto [9] qualche decennio prima (la data è incerta, ma risulta collocabile nella prima metà del IV secolo a.C.).

L'esigenza del commercio marittimo per i rifornimenti vitali dell'Urbe - in particolare per le necessità alimentari primarie del popolo (l'annona) - si presenta con particolare drammaticità fin dai primi anni della Repubblica, essendo i Romani perennemente costretti a difendersi dalle agguerrite popolazioni confinanti. Il primo esempio risale proprio al 508 a.C., secondo anno della Repubblica. "Poiché tutta la campagna era in potere dei nemici, e nessuna provvista veniva portata in città per via di terra, ma solo piccole quantità di provviste per mezzo del fiume", i consoli decisero "di inviare ambasciatori a Cuma ... e alle città della pianura pontina, per chiedere di conceder loro di poter importare il grano di lì": per il trasporto dei rifornimenti, questi legati romani si avvalsero di un gran numero di navicelle "a cui, dal mare, fecero risalire il Tevere" [10]. Pochi anni dopo, nel 492 a.C., per fronteggiare un'altra gravissima carestia, i consoli provvidero ad acquisire il grano inviando navi in tutte le direzioni, "non soltanto nell'Etruria lungo i lidi a destra di Ostia, e a sinistra nel territorio dei Volsci fino a Cuma, ma anche in Sicilia: tanto lontano l'ostilità dei vicini costringeva a cercare aiuti" [11]. In quei primissimi anni, quindi, si verificarono svariate e reiterate contingenze che costrinsero Roma a far affluire i propri rifornimenti di frumento per via marittima. "In seguito, per far fronte alle esigenze della popolazione urbana in continuo aumento, fu necessario ricorrere ad importazioni regolari, che già in età repubblicana furono organizzate nel sistema dell'annona" [12].

Lo sviluppo di traffici marittimi romani, fra il VI ed il V secolo a.C. deve necessariamente essere stato accompagnato da misure intese a contenere il rischio di intercettazione delle navi mercantili da parte dei pirati: fra tali accorgimenti, quello più convincente era evidentemente costituito dalla disponibilità di qualche nave da guerra. Abbiamo già visto che Polibio ammette tale possibilità fin dal VI secolo; Tito Livio, citando alcuni antichi annali in cui "si parla anche di un combattimento navale che avrebbe avuto luogo, presso Fidene, con i Veienti", nel 426 a.C., non esclude la possibilità che Roma possedesse qualche nave da guerra in quegli anni (V secolo a.C.), ma considera che lo svolgimento di una battaglia navale su quel tratto del Tevere risulti "incredibile per la ristrettezza del fiume ... a meno che, per ostacolare la traversata del fiume ai nemici, si sia ricorso ad alquante imbarcazioni; concorso che venne poi ingrandito, come spesso avviene, da coloro che aspiravano all'onore infondato di una vittoria navale" [13]. Lo stesso Tito Livio e Plutarco riportano invece senza riserve l'utilizzo di una nave da guerra romana agli inizi del IV secolo a.C.: nel 394 a.C., dopo le vittorie di Marco Furio Camillo su Veio e Faleria, una nave da guerra, equipaggiata con "la ciurma migliore" [14], venne inviata dal Senato in Grecia, nel golfo di Corinto, per portare un'offerta al santuario di Apollo Delfico. La nave romana fu dirottata dalle triremi dei pirati nel porto di Lipari; ma non appena i Romani resero nota la motivazione religiosa di quel viaggio, l'unità venne trattata con tutti gli onori, ivi inclusa la scorta per l'intera durata della traversata. Questo è peraltro il solo incidente con i pirati riferito dagli storici di quel periodo: se ne potrebbe desumere che le precauzioni adottate per la sicurezza del traffico mercantile romano riuscissero a contenere l'incidenza degli attacchi dei pirati entro livelli ritenuti normalmente accettabili.

Prescindendo quindi dai pirati, Roma non aveva ancora sperimentato, fino agli inizi del IV secolo, alcuna diretta minaccia dal mare. La Città aveva effettivamente beneficiato dei già accennati vantaggi della propria posizione, che Tito Livio riferisce con le seguenti parole (attribuite a Marco Furio Camillo nell'ambito del celebre discorso pronunciato nel 390 a.C.): "Non a caso certo gli dèi e gli uomini prescelsero questi luoghi per fondarvi una città: colline saluberrime, un fiume opportunissimo per convogliarvi i prodotti delle regioni interne e per riceverne le importazioni marittime, in località vicino al mare quanto basta per le nostre necessità, ma non tanto da esporci al pericolo di incursioni di navi straniere" [15]. Ma se l'Urbe stessa era al riparo dalle incursioni navali, lo stesso non poteva certo dirsi per il litorale marittimo di diretto interesse dei Romani: nel 349 a.C., Roma ebbe per la prima volta l'esigenza di dover respingere dei nemici sbarcati sulle coste laziali da una flotta greca di provenienza incerta, forse appartenente, come dice Tito Livio, a "tirannelli siciliani". Il comando di quella "guerra marittima" venne assunto dal console Lucio Furio Camillo: i Greci, tenuti per molto tempo "lontani dalle spiagge, non potendo rifornirsi nemmeno di acqua nonché di tutto il resto indispensabile alla vita, abbandonarono l'Italia" [16].

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III. LA PRIMA MARINA DA GUERRA


Delle azioni ostili provenienti dal mare vennero condotte un decennio più tardi anche da parte delle navi di Anzio, che effettuarono delle incursioni proprio su quel litorale di Ostia ove massimamente acuta era la sensibilità marittima dei Romani. Questi poterono regolare definitivamente quella questione non più tardi di due anni dopo: nel 338 a.C. gli Anziati vennero sconfitti dal console Caio Menio. "Ad Anzio fu mandata una nuova colonia ...: le navi da guerra furono condotte via e il mare fu precluso agli Anziati ... Una parte delle navi degli Anziati fu condotta nei cantieri di Roma, una parte abbruciata, e con i rostri di queste si adornò la tribuna costruita nel Foro che ebbe poi il nome di Rostri" [17]. La cattura delle navi di Anzio e la loro immissione sugli scali dei cantieri navali già esistenti nell'Urbe fornì ai Romani una disponibilità navale tale da costituire il nucleo di una vera e propria Marina da guerra, di dimensioni contenute ma comunque coerenti con l'ancor limitato ruolo di potenza "regionale" assunto da Roma. I Romani, come si vede, iniziarono subito a pensare in termini di potere marittimo, precludendo innanzitutto il mare agli Anziati: fu questo il primo di una serie di provvedimenti sistematicamente adottati da Roma contro le nazioni vinte per neutralizzarne il potenziale marittimo.

Le esigenze di gestione della flotta richiesero ben presto (312 a.C.) l'istituzione di un'apposita magistratura dello Stato: i "duumviri navali", nominati da parte del popolo ed "incaricati dell'allestimento e delle riparazioni della flotta" [18]. A questo provvedimento - in mancanza di qualsiasi informazione sull'organizzazione preesistente - si fa spesso riferimento per fissare l'anno di nascita ufficiale della prima Marina da guerra di Roma. Mi sembra perlomeno altrettanto importante rilevare l'emergere, in quel periodo, di uno spiccato orgoglio marittimo, che traspare con evidenza dalla monumentalizzazione dei rostri nel cuore dell'Urbe e dalla raffigurazione della prora rostrata di una nave da guerra su tutte le monete di Roma. Non si trattò di occasionali atti celebrativi intesi a soddisfare qualche episodica fiammata di entusiasmo, ma di qualcosa di duraturo che doveva riflettere una matura consapevolezza degli interessi di Roma sul mare. Quattro secoli dopo, Plinio il Vecchio ancora poteva scrivere che "i rostri delle navi, affissi davanti alle tribune, ornavano il foro come una corona di cui fosse stato insignito il popolo romano stesso" [19]. Per quanto concerne, inoltre, la proiezione esterna della propria immagine negli scambi commerciali, Roma "adotta come primo emblema sulle sue monete la prua di nave; non solo, ma essa conserva poi un tale emblema su questi pezzi di bronzo con costanza inalterata per quasi tutta la repubblica ... Ed è a questo simbolo, quasi sintesi di ricordi, di realtà e di aspirazioni, che i Romani restarono fedeli per secoli" [20].

Circa la tipologia dei compiti assegnati a questa flotta, abbiamo quattro buoni esempi da cui si può facilmente desumere che l'attività operativa si estendeva nell'intera gamma delle missioni che debbono essere considerate da una Nazione che voglia consolidare ed espandere il proprio potere marittimo.

Vi è innanzi tutto l'esigenza di sicurezza delle proprie acque costiere e di controllo delle acque limitrofe: fin da quegli anni (311 a.C) la flotta romana assolse, su mandato del Senato, compiti di "sorveglianza delle coste, verso la Campania" [21], penetrando anche all'interno del golfo di Napoli nonostante la presenza, in quell'area, di marinerie di antica tradizione e di sicura perizia.

Registriamo poi l'esigenza di esplorare gli altri litorali di più immediato interesse, verosimilmente nell'ottica di un futuro controllo delle isole maggiori: sempre in quegli anni (307 a.C.), infatti, una flottiglia romana effettuò una ricognizione navale in Corsica per verificare la possibilità di fondarvi una colonia: risulta che i Romani "vi approdassero con venticinque navi" [22], riscontrando tuttavia l'eccessiva inospitalità della località prescelta.

Permane, inoltre, l'esigenza di utilizzare le navi della flotta militare per le missioni di Stato oltremare: nel 292 a.C., una unità da guerra venne nuovamente inviata in visita ufficiale in Grecia (questa volta nel mar Egeo, a Epidauro) per motivi religiosi. Si trattò di quella "trireme romana" [23] che ritornò nel Tevere con il serpente di Esculapio: questo andò a rifugiarsi sull'isola Tiberina, ove venne poi eretto, in onore del dio della medicina, quel santuario le cui funzioni di ospedale cittadino si sono tramandate fino ad oggi. All'isola Tiberina venne poi conferita, architettonicamente, la forma di una nave da guerra, come si può ancor oggi vedere dai resti del mascone e della fiancata di sinistra scolpiti su blocchi di travertino (prima metà del I secolo a.C.) fissati sul tratto a valle del ponte Fabricio.

La quarta e più significativa missione che troviamo in quegli anni è quella della presenza navale dissuasiva, in acque più remote, allo scopo di fornire sostegno ad una popolazione alleata: nel 282 a.C., infatti, una flottiglia romana di dieci navi, comandata dal duumviro navale Lucio Cornelio, venne inviata ad effettuare una ricognizione nel golfo di Taranto, poiché la città di Turi, alleata dei Romani, era oggetto di minacce da parte dei Lucani. Mentre la piccola formazione romana passava davanti alla città di Taranto "non temendo alcuna ostilità" [24] (poiché le relazioni fra le due città erano buone), essa venne sottoposta senza preavviso al proditorio attacco della flotta tarantina sotto il pretesto degli "antichi patti, secondo i quali i Romani non dovevano navigare a nord del capo Lacinio" [25], l'odierno Capo Colonne (che segna il limite meridionale dell'ampio golfo di Taranto): da quella inattesa aggressione, in cui lo stesso duumviro navale perse la vita, cinque unità della flottiglia romana riuscirono a disimpegnarsi, mentre quattro vennero affondate ed una catturata.

I Romani, dopo aver inutilmente tentato la composizione diplomatica della crisi (ma il legato del Senato venne oltraggiato), dichiararono guerra ai Tarantini, che, a quel punto, sollecitarono l'intervento di Pirro. Aderendo a quelle richieste di aiuto, Pirro sbarcò con le sue forze (ivi inclusi i temuti elefanti) sulla costa meridionale del Salento. Era la terza volta che Taranto promuoveva lo sbarco di forze elleniche in Italia: in precedenza, infatti, erano già sbarcati sulle coste della Penisola Alessandro d'Epiro (341-327) e Cleonimo (302). Ma quella fu la sola volta che ciò venne effettuato contro Roma; e si trattò anche dell'ultima volta - fino all'arrivo dei Vandali, oltre 7 secoli dopo - che fu possibile uno sbarco di forze straniere in Italia: nonostante l'estrema ristrettezza del canale d'Otranto (valicabile in breve tempo anche con quei natanti di fortuna utilizzati ai nostri giorni per l'immigrazione clandestina), i Romani non lo permisero più.

E' peraltro interessante notare che nel 282 a.C., dopo lo sbarco di Pirro, i Romani, benché in gravi difficoltà sul fronte terrestre, ritennero di avere una flotta sufficiente per le proprie esigenze di controllo navale: il Senato rifiutò infatti l'aiuto offerto dai Cartaginesi - giunti ad Ostia con una flotta di 120-130 navi [26] - comunicando al loro ammiraglio Magone che "il popolo romano soleva intraprendere guerre tali che potevano essere condotte con le proprie forze" [27].

Nel corso di quella stessa guerra, nel 279 a.C., venne comunque ratificato il 3° Trattato navale fra Roma e Cartagine: esso prevedeva una reciproca assistenza in caso di necessità belliche, attribuendo ai Cartaginesi l'onere del trasporto navale delle truppe e l'obbligo di fornire il sostegno eventualmente necessario alle operazioni navali romane. Nel 275, Pirro, sconfitto dal console Curio Dentato, lasciò definitivamente l'Italia. Nel 272, mentre la città di Taranto, ormai stremata, stava per capitolare, "una flotta cartaginese venne in aiuto ai Tarantini, fatto che costituì una violazione del trattato" [28] (anche se fu ininfluente sull'esito della guerra).

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IV. LA SUPREMAZIA MARITTIMA


Quattro anni dopo (268 a.C.), pervennero a Roma gli ambasciatori dei Mamertini - i Campani che si erano insediati a Messina -, che, minacciati dai Siracusani e dai Cartaginesi, richiedevano l'aiuto dei Romani. Dopo ulteriori quattro anni (264 a.C.) i Romani si risolsero ad intervenire in difesa degli alleati di Messina, tenendo ben presente l'importanza strategica della Sicilia ai fini delle proprie esigenze di sicurezza: essi vedevano "come i Cartaginesi ... fossero padroni di tutte le isole dei mari Sardo e Tirreno: temevano che, se avessero posto piede anche in Sicilia, i Cartaginesi sarebbero divenuti vicini troppo potenti e pericolosi ... nella possibilità di minacciare ogni parte d'Italia" [29]. Queste considerazioni si ricollegavano direttamente all'altra motivazione dell'intervento di Roma, cioè "l'aiuto che i Cartaginesi avevano dato ai Tarantini" [30], in violazione del Trattato navale: avendo sperimentato la malafede punica, che aveva privato di qualsiasi credibilità quel mutuo sostegno navale previsto dal Trattato, i Romani dovevano necessariamente prefiggersi il conseguimento dell'autosufficienza nella tutela dei propri interessi marittimi. Ma poiché questo obiettivo non poteva essere perseguito senza incontrare l'ostilità di Cartagine, Roma doveva combattere quella guerra, non solo per la Sicilia, ma anche per il mare.

Per effettuare lo sbarco in Sicilia e per il successivo sostegno a favore delle operazioni a terra, i Romani avevano bisogno di una flotta di dimensioni certamente più ampie di quelle raggiungibili con le sole navi - da guerra ed onerarie - di Roma; essi fecero quindi quello che normalmente facevano per le forze terrestri: integrarono la propria flotta con "delle navi da cinquanta remi e delle triremi" [31] rese disponibili dalle città alleate, con prevalenza, naturalmente, di quelle con maggiori capacità ed esperienze marittime, come Napoli e Taranto. Quando, radunata la flotta, il console Appio Claudio salpò per Messina, i Cartaginesi "ingaggiarono con i Romani una battaglia per mare" [32], inducendoli a ritirarsi nel porto di Reggio. Poiché "i Cartaginesi custodivano lo stretto" [33], Appio Claudio ricorse ad un audace stratagemma: dopo aver simulato di abbandonare la zona di operazioni, egli attraversò lo Stretto di notte, portando la sua flotta a Messina senza danni.

Nel biennio 263-262 a.C., i Romani poterono avvalersi anche del concorso della flotta del re Gerone di Siracusa, con cui si erano alleati. Tale flotta, tuttavia, ancorché utilissima ai fini della sicurezza dell'afflusso dei rifornimenti logistici romani, non era in grado di imporre alcuna limitazione alla libertà di movimento dei Cartaginesi sul mare. I Romani, quindi, avendo compresero che nessun risultato risolutivo avrebbe potuto essere conseguito qualora non fossero riusciti, essi stessi, ad acquisire il controllo del mare, avviarono la costruzione della loro prima grande flotta: "cento quinqueremi e venti triremi" [34]. Questo salto di qualità, avvenuto nel 261 a.C., conferì alla prima guerra Punica quella straordinaria sua connotazione di epica lotta per la supremazia marittima, lotta combattuta dai Romani contro quella che era, indubbiamente, la maggiore potenza navale del Mediterraneo.

Dovendo formare ex-novo un elevato numero di equipaggi per le unità in costruzione, i Romani realizzarono, a terra, un vero e proprio allenatore, secondo il criterio seguito oggigiorno presso i vari Centri di Addestramento delle più importanti Marine Militari. "Essi si servivano di questo metodo: facevano sedere gli uomini su banchi per rematori, disposti sulla terraferma, nello stesso ordine dei banchi della nave, nel mezzo ponevano il capo, li abituavano a gettarsi tutti insieme all'indietro accostando al petto le mani, quindi a chinarsi in avanti spingendole in fuori, e ad iniziare e cessare il movimento agli ordini del comandante" [35].

I Romani erano inoltre ben consapevoli di dover affrontare equipaggi addestratissimi, con i più esperti comandanti esistenti nel Mediterraneo, e delle navi costruite con le migliori tecnologie - e quindi in possesso di qualità nautiche (velocità e capacità evolutive) ottimali - mentre essi stavano costruendo per la prima volta delle quinqueremi (non avendo esperienza di costruzioni superiori alle triremi). L'enorme divario tattico e tecnologico richiedeva una adeguata compensazione. Nei combattimenti navali dell'antichità, l'avversario veniva innanzi tutto impegnato con il lancio di proiettili, quindi con azioni di speronamento - con il rostro, per sfondare le fiancate delle navi nemiche o anche per danneggiare gli organi di governo (remi e timoni) - e, infine, con l'arrembaggio delle navi che si riusciva ad abbordare (trattenendole poi con dei rampini o mani di ferro). I Romani vollero migliorare le proprie possibilità di arrembaggio - a cui provvedevano i militi navali imbarcati (detti anche soci navali o classici) - mediante l'invenzione del corvo, la cui struttura ci è stata descritta in modo particolareggiato da Polibio [36]: si trattava di una passerella orientabile che, sistemata a prora e manovrata con un sistema analogo a quello dei picchi di carico, agganciava la nave nemica che si voleva abbordare; essa risultò utilissima ai Romani nei loro primi grandi confronti con il nemico, poiché li mise in condizione di poter arrembare anche quelle navi che, per la maggior velocità o per le migliori qualità evolutive, si sarebbero sottratte alle loro manovre di affiancamento.

Nel 260 a.C., il console Caio Duilio assunse il comando della flotta in sostituzione del collega Gneo Cornelio Scipione, che, portatosi alle Lipari con 17 navi, era stato catturato dai Cartaginesi con un inganno. Poco prima la flotta romana aveva già riportato un primo incoraggiante successo contro i Cartaginesi al largo di Capo Vaticano. Ma fu Caio Duilio a condurre vittoriosamente la flotta di Roma nella sua prima grande battaglia navale. Questa avvenne, com'è noto, nelle acque di Milazzo, contro una flotta punica di 130 navi. Lo scontro, caratterizzato dal pieno sfruttamento della sorpresa costituita dalla presenza e dall'efficacia dei corvi, fu pienamente favorevole ai Romani: "poiché da ogni parte i corvi incombevano minacciosi, di modo che inevitabilmente chi si avvicinava ne veniva attanagliato, i Cartaginesi cedettero e presero la fuga, atterriti dalla nuova esperienza, dopo aver subito la perdita di cinquanta navi" [37].

La vittoria navale di Milazzo (260 a.C.) segnò una svolta memorabile nella storia di Roma, che aveva raggiunto la statura di una potenza navale in grado di misurarsi con Cartagine. "Nessun'altra vittoria riuscì mai ai Romani più gradita di questa" [38]. "I Romani, contrariamente a ogni aspettativa, potevano concepire la speranza di ottenere la supremazia per mare" [39]. Il console Caio Duilio inaugurò la lunga serie dei trionfi navali [40] dei comandanti delle flotte romane; in suo onore venne anche eretta, nel Foro romano, la prima colonna rostrata dell'Urbe [41].

Dopo quel loro primo grande successo in mare, i Romani effettuarono subito una spedizione navale in Sardegna ed in Corsica (259), ove sconfissero i Cartaginesi. Due anni dopo, il console Caio Attilio Regolo, con un brillante stratagemma [42], ottenne nelle acque di Tindari una vittoria navale che gli valse il conferimento della prima "Corona navale" [43], la più ambita delle onorificenze militari dei Romani.

I Romani, quindi, avendo predisposto una grande spedizione anfibia per portare la guerra in Africa, affrontarono la flotta nemica nell'estate del 256 a.C. al largo di Ecnomo (località sul promontorio della costa sud-occidentale sicula, nei pressi dell'odierna Licata): "si rimane ... colpiti dalla gravità della battaglia e dalla straordinaria potenza che entrambe le città dimostrarono col mettere in campo tanta moltitudine di uomini e di navi" [44]: quella di Ecnomo fu infatti la più grande delle battaglie navali mai registrate dalla Storia, sia per numero di navi partecipanti (680, di cui 330 navi romane), sia per numero di uomini imbarcati (290 mila, di cui 140 mila Romani). La flotta romana affrontò il combattimento pur essendo appesantita dal carico bellico necessario per lo sbarco in Africa: vi erano perfino le navi che trasportavano i cavalli, poste a rimorchio di quelle della terza squadra. Pertanto, i due consoli romani - Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone - adottarono un dispositivo idoneo a proteggere le navi più lente e meno manovriere. Anche in questa battaglia, tatticamente molto più complessa di quella di Milazzo, i Romani ebbero la meglio, perdendo solo 24 navi, mentre i Cartaginesi ne persero un centinaio, di cui 64 catturate con tutti gli equipaggi.

Dopo la vittoria navale di Ecnomo, Attilio Regolo condusse con successo anche il primo sbarco navale romano in Africa, impadronendosi di Clupea (odierna Kelibia) e di Tunisi, giungendo quindi a pochi chilometri dalla stessa Cartagine. Ma le successive operazioni terrestri si risolsero in una grave sconfitta dei Romani e nella cattura del loro celebre ed eroico Comandante in capo.

La flotta romana, inviata in Africa nella successiva primavera (255) per soccorre ed evacuare le forze terrestri, conseguì il pieno successo, ottenendo nelle acque di Capo Ermeo anche una splendida vittoria navale, che fruttò la cattura di ben 114 navi puniche e la dedica di una colonna rostrata sul Campidoglio in onore del console Marco Emilio. La missione venne tuttavia funestata nelle acque di Camarina da un disastroso naufragio, da cui si salvarono solo 80 navi su 364. Nei due anni seguenti, la flotta romana (con 300 navi) venne impiegata per la presa di Palermo (254) e per un'altra redditizia incursione in Africa (253), seguita da un secondo tremendo naufragio, al largo di Capo Palinuro, ove vennero perse più di 150 navi.

Furono al quel punto necessari due anni di pausa per analizzare quelle disgrazie e per riapprontare, alla luce dei risultati acquisiti, una nuova flotta. Ai fini della comprensione di questo passaggio, mi sembra particolarmente interessante e realistica la seguente ipotesi formulata da J. H. Thiel: "between 255 and 249 the Roman fleet was almost entirely renewed and on this occasion the "corvi" will have been abolished. ...For in that period the Roman warfleet was almost completely destroyed by two gales (in 255 and 253); ... we may readily suppose that the presence of the "corvi" considerably aggravated the catastrophe. ... I believe therefore that, when the Romans were forced by the catastrophes just mentioned to build new fleets, they abolished the "corvus", because the instrument had proved a dangerous absurdity by stormy weather" [45].

Certo è che a partire da quegli anni i corvi non vengono più nominati; non solo, ma il primo confronto sostenuto dai Romani dopo la presunta soppressione dei corvi si risolse nell'unica clamorosa sconfitta romana: in occasione della battaglia navale di Trapani (249), infatti, la flotta romana comandata dal console Publio Claudio venne pressoché annientata: 93 navi vennero catturate dai Punici e solo una trentina riuscì a salvarsi. Come se non bastasse, a quel disastro ne seguì immediatamente uno ancora maggiore, occorso alla seconda flotta inviata dal Senato in Sicilia al comando dall'altro console Lucio Giunio: una violenta tempesta provocò al largo di Eraclea Minoa un naufragio di spaventose dimensioni: vennero perse 120 navi da guerra e quasi 800 onerarie.

Questa impressionante sequenza di perdite di una gravità sconcertante avrebbe dovuto costituire un colpo mortale alla volontà di continuare a misurarsi, sul mare, con la maggiore potenza navale del Mediterraneo. Ma i Romani non mollarono, anche se ebbero bisogno di qualche tempo per riprendersi (soprattutto per compensare la perdita di un così elevato numero di equipaggi). Nel periodo 248-243 a.C., com'era avvenuto anche nel biennio 252-251, Roma mantenne solo una flotta di circa 60 navi per la sicurezza delle coste d'Italia e del flusso di rifornimenti marittimi necessari alle forze schierate in Sicilia. Poi, i Romani "decisero di riporre per la terza volta le loro speranze nelle forze navali. ... Quest'ultimo tentativo ebbe veramente il carattere di una lotta per l'esistenza" [46]. Essi avevano avuto modo, nel frattempo, di studiare le particolarità costruttive di una quinquereme cartaginese particolarmente agile e veloce che era stata catturata nel 250 a.C. in occasione del blocco del porto di Lilibeo (odierna Marsala). Venne così allestita una nuova flotta di duecento quinqueremi, costruite a regola d'arte in modo da possedere, finalmente, qualità evolutive non inferiori a quelle del nemico.

Nel 242 a.C., anno in cui i Romani conferirono questo nuovo vigoroso impulso alla guerra navale, i Cartaginesi, pur essendosi ritirati da quasi tutta la Sicilia, mantenevano il possesso dell'area di Trapani e Lilibeo con poderose forze dislocate sul monte Erice, sotto il comando di Amilcare Barca, il celebre padre di Annibale. Giunto con la nuova flotta nelle acque sicule in piena estate, in assenza della flotta cartaginese, il console Caio Lutazio Catulo poté sfruttare la sorpresa per impadronirsi immediatamente del porto di Trapani e della rada di Lilibeo. Nel successivo autunno-inverno, il Romano dedicò tutte le sue cure all'addestramento degli equipaggi navali.

Sul finire dell'inverno, i Cartaginesi inviarono verso la Sicilia una grossa flotta carica di rifornimenti per le loro truppe dell'Erice. Essendo stata avvistata la formazione punica al largo di Marettimo, Lutazio Catulo fece uscire la flotta romana e, pur vedendo che le condizioni meteorologiche gli erano sfavorevoli, ma volendo ad ogni costo evitare che le navi cartaginesi riuscissero a rifornire le truppe a terra, diresse per intercettare il nemico. La battaglia navale delle Egadi venne così combattuta il 10 marzo 241 a.C., in una situazione stagionale ancora perturbata. La decisione di Lutazio Catulo di ingaggiare subito il combattimento - decisione tatticamente ineccepibile - risulta particolarmente apprezzabile sotto il profilo marinaresco, poiché i Romani dovevano affrontare il maltempo procedendo con vento e mare in prora, mentre la navigazione dei Cartaginesi beneficiava di un favorevolissimo vento in poppa.

Secondo Diodoro Siculo [47], l'intera flotta assegnata al console Caio Lutazio Catulo comprendeva 300 navi da guerra e 700 navi onerarie; i Cartaginesi avevano 250 navi da guerra ed un gran numero (non precisato) di navi da trasporto. I Romani "avevano cambiato il metodo di costruzione delle navi e avevano eliminato ogni peso, tranne quello del materiale indispensabile alla battaglia navale: i marinai, esercitati ai movimenti concordi, prestavano un servizio eccellente, mentre i soldati imbarcati erano uomini scelti" [48].

Nel corso della battaglia, "i Romani dettero prova di straordinario valore. Delle navi Cartaginesi, infatti, sessantatré furono catturate e centoventicinque affondate. Inoltre trentaduemila nemici vennero fatti prigionieri, tredicimila uccisi e un'immensa quantità d'oro, d'argento e d'altro bottino cadde nelle mani dei Romani. Della flotta romana dodici sole navi furono affondate" [49]. Le navi superstiti della flotta cartaginese fuggirono verso Marettimo, favorite dal vento che, nel frattempo, era girato. Dopo la vittoria navale di Lutazio Catulo, Amilcare Barca si rassegnò a richiedere la pace, visto che i Romani erano divenuti padroni assoluti del mare. "Insomma, quella vittoria fu così grande, che non si prese in considerazione di abbattere le mura dei nemici. Sembrò superfluo infierire contro la rocca e le mura, quando Cartagine era già stata distrutta sul mare" [50]. In riconoscimento degli straordinari meriti acquisiti da Caio Lutazio Catulo, il Senato di Roma gli decretò il trionfo navale.

Con la determinante battaglia navale delle Egadi, si concluse la prima guerra Punica. Il trattato di pace impose ai Cartaginesi di ritirarsi dalla Sicilia e da tutte le isole minori comprese fra la Sicilia e l'Africa. Un'ulteriore clausola relativa alla Sardegna venne aggiunta tre anni dopo, poiché i Cartaginesi nel corso della guerra Libica (241-238) avevano violato il trattato di pace aggredendo delle navi mercantili romane che commerciavano nelle acque africane.

L'argomento non potrebbe essere adeguatamente concluso senza citare il bilancio che ne trasse Polibio. "La guerra sorta fra i Romani e i Cartaginesi per il possesso della Sicilia ebbe così termine ... dopo essere durata ventiquattro anni continui; fu, delle guerre delle quali abbiamo notizia, la più lunga, la più grave, la più continua. In essa, ... una volta i due contendenti misero in campo più di cinquecento quinqueremi, un'altra poco meno di settecento. In tale guerra i Romani perdettero quasi settecento quinqueremi, comprese quelle distrutte nei naufragi, i Cartaginesi ne perdettero quasi cinquecento. ... Se si tien conto ... delle differenze fra le quinqueremi e le triremi delle quali si servirono i Persiani contro i Greci, ... si conclude che mai forze di tale entità discesero a combattere in mare. Da tutto questo risulta evidente ... che ... i Romani non per vicende casuali, ... ma assolutamente a buon diritto, dopo essere stati messi alla prova in tante vaste e pericolose imprese, audacemente concepirono il disegno di conseguire l'assoluta egemonia e attuarono il loro proposito" [51].

SOMMARIO

V. L'ESERCIZIO DEL POTERE MARITTIMO


Dopo la sua autorevole affermazione sul mare, Roma ebbe la necessità di inviare le sue flotte al di là dell'Adriatico (I e II guerra Illirica; 229-228 e 220-219 a.C.) per porre fine alle azioni di pirateria che venivano condotte dalle navi illiriche ai danni del commercio marittimo esercitato dai Romani e dalle altre marinerie d'Italia. Si trattò di due impegni di breve durata ma di rilevante importanza, sia ai fini della sicurezza della navigazione in Adriatico, sia per le felici ricadute in termini di immagine nelle relazioni fra Roma ed i Greci (Atene, Corinto, lega Achea e lega Etolica).

In quegli anni, il commercio marittimo romano doveva aver assunto delle dimensioni di tutto rispetto: a parte quello che si svolgeva nei mari d'Italia, vi è l'evidenza di consistenti traffici marittimi romani nelle acque africane (come si è accennato parlando della guerra Libica) ed in quelle iberiche a nord della foce dell'Ebro (l'influenza romana su quel litorale venne riconosciuta dai Cartaginesi nel 226 a.C., con il cosiddetto Trattato dell'Ebro,). Certo è che il volume di affari collegato con il traffico mercantile doveva essere, a Roma, estremamente fiorente: sappiamo per esempio che i senatori andarono su tutte le furie quando, nel 218 a.C., il tribuno della plebe Quinto Claudio, riuscì a fare approvare una nuova legge "secondo la quale nessun senatore o figlio di senatore avesse in mare una nave di più di trecento anfore"; a giudizio del proponente, tale carico - equivalente a circa 8 tonnellate - "era sufficiente per il trasporto dei raccolti agricoli; ogni altro traffico era indecoroso per i senatori. E la cosa, discussa con sommo accanimento, aveva procurato al sostenitore della legge ... malevolenze da parte del patriziato, ma favore da parte della plebe" [52], presso cui i più intraprendenti avevano già iniziato ad assaporare i benefici di quei traffici.

Ma in quello stesso periodo, si erano addensate all'orizzonte le nerissime nubi del furore revanscista di Annibale, che varcava il fiume Ebro per avviare la sua lunga marcia verso l'Italia. Iniziava così la II guerra Punica, in cui i Romani dimostrarono di aver perfettamente messo a fuoco i principi basilari della gestione del potere marittimo. Infatti, se nella prima guerra contro Cartagine i Romani erano riusciti, a coronamento di un gigantesco ed indomabile impegno sul piano prettamente navale, a strappare ai Punici la supremazia marittima, fu nella seconda guerra che essi ebbero l'occasione di avvalersi del potere marittimo per contenere, contrastare e finalmente eliminare la tremenda minaccia recata, per impulso di Annibale, dalla città rivale. Non è certamente casuale che le riflessioni del Mahan abbiano inizialmente preso a riferimento proprio le operazioni delle forze marittime di Roma nel corso della seconda guerra Punica. Lo stesso Mahan riconobbe che, nella storia di Roma, "il potere marittimo ebbe un peso ed un'importanza strategica che ha ricevuto scarso riconoscimento"; per quanto concerne, in particolare, "la sua influenza sulla seconda guerra punica, ... le notizie che ci restano sono sufficienti per autorizzare l'affermazione che esso fu un fattore determinante" [53].

All'inizio della guerra, mentre Annibale procedeva dalla Spagna verso l'Italia seguendo la via terrestre - la sola consentitagli dal potere marittimo acquisito dai Romani -, le forze romane vennero così suddivise fra i due consoli: 60 quinqueremi ed un esercito a Publio Cornelio Scipione (padre dell'Africano) per intercettare le linee di comunicazioni fra Spagna ed Italia; 160 quinqueremi e delle forze terrestri a Tiberio Sempronio per la guerra a sud, nell'area marittima compresa fra la Sicilia e l'Africa.

Il primo provò prima ad intercettare Annibale portandosi con propria la flotta alle foci del Rodano. Ma, poiché il Cartaginese lo aveva preceduto, navigò fino a Genova ove sbarcò con l'esercito, lasciando il comando della flotta al fratello Gneo Cornelio Scipione, che doveva portarla in Spagna.

Prima ancora che l'altro console, Tiberio Sempronio, raggiungesse la flotta in Sicilia, i Cartaginesi avevano già avviato delle incursioni navali contro l'Isola, con una flotta di trentacinque quinqueremi. Ad essa si oppose il pretore Marco Emilio, che assunse il comando della flotta dislocata nel porto di Lilibeo e catturò sette navi puniche con 1700 uomini; "la flotta "romana rientrò illesa nel porto, avendo avuta una nave speronata, ma che anch'essa tornò da sé sola" [54]. Mentre le operazioni navali romane si avviavano con la benaugurante vittoria navale di Lilibeo, Annibale infliggeva la prima sconfitta (sul Ticino) alle legioni romane, comandate dal console Publio Cornelio Scipione.

L'altro console, Tiberio Sempronio, raggiunse a Lilibeo la flotta vittoriosa, con cui si recò subito ad occupare l'isola di Malta, catturandovi la guarnigione cartaginese; rientrato a Lilibeo ed avendo poi appreso della progressione di Annibale in Italia, imbarcò l'esercito e si portò con le navi lungo l'Adriatico fino a Rimini; sbarcate le truppe, marciò contro Annibale, venendo tuttavia sconfitto in battaglia terrestre (sul Trebbia).

Annibale aveva lasciato il fratello Asdrubale - con delle forze terrestri e navali - in Spagna, che doveva costituire la principale riserva logistica per le forze terrestri cartaginesi in Italia. Data l'importanza strategica di tale ruolo, i Romani, nonostante le gravi difficoltà arrecate loro dall'esercito di Annibale in Italia, continuarono ad attribuire un'elevata priorità alle operazioni nella penisola iberica, a cui essi potevano agevolmente accedere avvalendosi della loro libertà di movimenti sul mare. Nella primavera 217 a.C., Gneo Cornelio Scipione, portatosi alla foce dell'Ebro con 35 navi, vi sconfisse la flotta di Asdrubale, di cui catturò non meno di venticinque navi (su 40). Dopo la vittoria navale dell'Ebro e la conquista di tutto quel tratto della costa iberica, la flotta romana saccheggiò anche l'isola di Ibiza, tenuta dai Cartaginesi, traendone una grande quantità di bottino. Le operazioni romane in Spagna proseguirono anche nei cinque anni successivi, sotto il comando dei due Scipioni (Gneo Cornelio Scipione ed il fratello Publio, che si era ricongiunto).

In quel secondo anno di guerra, il console Gneo Servilio Gemino, con 120 quinqueremi, saccheggiò l'isola di Menige (odierna Gerba), riscosse un tributo dall'isola di Cercina (Kerkennah) e si impossessò dell'isola di Pantelleria. Sul fronte italiano, le legioni romane subirono da Annibale la terza tremenda sconfitta (Trasimeno, giugno 217 a.C.) e, un anno dopo, il quarto e più disastroso rovescio (Canne, 2 agosto 216).

Dall'esame dei primi due anni di guerra, colpisce lo stridente contrasto fra la grande sicurezza con cui i Romani si mossero sul mare e le crescenti difficoltà incontrate sul terreno, nella loro stessa Italia, di fronte all'apparente invincibilità dell'esercito condotto da Annibale. Si disse che la salvezza dei Romani, in quella contingenza, fu tutta nel temporeggiare: detto così, potrebbe sembrare una miope tattica dilatoria, dettata dal timore; si trattò invece - la Storia lo dimostra - della scelta serena e consapevole di chi sa guardare lontano e, confidando nei tempi lunghi della strategia, opera le sue scelte basandosi estensivamente sul potere marittimo. Questo consentì a Roma di ribaltare una situazione che appariva irrimediabilmente compromessa: "quando, invasa, calpestata ... e desolata da battaglie sanguinose, parve sul punto di giacere prostrata, l'indispensabile possesso del mare la sollevò e le fornì l'occasione della riscossa vincitrice" [55]. Nel grandioso scenario del conflitto, il Senato seppe scegliere le proprie mosse con estrema lungimiranza, e ciò avvenne su di una scacchiera costituita da una grande pluralità di teatri con esigenze operative contemporanee: penisole italiana, iberica e balcanica, acque della Sicilia, della Sardegna e del nord-Africa; coste e territorio della Sicilia e della stessa Cartagine.

Nella penisola italiana, fin dopo la battaglia di Canne, Annibale tentò in tutti i modi di impadronirsi di una città marittima, sperando di potervi ricevere dei rifornimenti da Cartagine: provò con Napoli (216 a.C.), poi con Cuma (215), quindi con Pozzuoli e con Taranto (214), ma non ebbe successo, poiché i Romani impiegarono le loro migliori energie per evitare ch'egli giungesse al mare. Più tardi, in seguito ad una congiura interna, la città di Taranto aprì le porte al Cartaginese (212), che non riuscì comunque né ad espugnarne la rocca (ove il presidio di Marco Livio Salinatore venne periodicamente rifornito dalla flottiglia romana di Reggio), né a sfruttarne il porto per i suoi collegamenti con l'Africa o con la Spagna (vi fu solo, nell'estate 211, una breve sosta inconcludente di una flotta punica proveniente dalla Sicilia), fino a quando i Romani ripresero la città (209).

In Sicilia, dopo la morte del re Gerone (215 a.C.), Siracusa si era accordata con i Cartaginesi per la spartizione dell'Isola. Da Roma, nel 214, venne quindi inviato contro Siracusa, con una flotta di sessanta quinqueremi, il console Marco Claudio Marcello, che aveva brillantemente tenuto testa ad Annibale in Italia dopo la battaglia di Canne. Venne così avviato il celebre assedio - navale e terrestre - di Siracusa, strenuamente difesa dai micidiali congegni ideati dalla fertile mente di Archimede e, in qualche caso, dalle ancor più fertili menti di qualche cronista (è il caso dei leggendari specchi ustori). La cittadella di Siracusa venne espugnata nel 212, grazie all'efficacia dell'assedio e del blocco navale, e con l'ausilio di qualche defezione interna evidentemente agevolata dalla carestia. L'assalto venne condotto dalle navi che sbarcarono le truppe con un'azione condotta di sorpresa contro posti di guardia parzialmente sguarniti. Poco prima, Marcello aveva ottenuto un significativo successo navale al largo di capo Pachino, portando la sua flotta contro una grossa formazione cartaginese (130 navi da guerra e 700 onerarie) che doveva recare aiuti a Siracusa: i Cartaginesi, dissuasi dalla flotta romana, invertirono la rotta e rientrarono in patria.

In quegli stessi anni, una flotta romana di 50 navi venne inviata nelle acque dello Ionio e dell'Egeo per contrastare Filippo V, re di Macedonia, che si era alleato con Annibale: si trattò della prima guerra Macedonica (214-204 a.C.), che impegnò i Romani nel bel mezzo della II guerra Punica. La presenza navale romana conseguì il risultato di controllare le mosse del re macedone, contenerne le mire espansive in Grecia e dissuaderlo da qualsiasi velleità di invio di forze o di altre risorse in Italia in sostegno ad Annibale.

Nelle acque fra le isole maggiori e la costa africana operò la flotta romana basata a Lilibeo, posta prima sotto il comando di Tito Otacilio Crasso (dal 217 al 210 a.C.) e poi di Marco Valerio Levino (dal 210 al 207). Il primo sconfisse una flotta cartaginese nel canale di Sardegna (nel 215), catturandone 7 navi; poi, nei giorni dell'assalto a Siracusa (212) effettuò una fruttuosa incursione navale sulla costa africana, nei pressi di Utica, e ne tornò con 130 navi onerarie cariche di bottino e di frumento, che venne subito inviato a Siracusa per sfamare vincitori e vinti. Marco Valerio Levino (già illustratosi al comando della guerra Macedonica nel quadriennio 214-211), con una flotta di 100 navi effettuò un'incursione nei pressi della città di Clupea (estate 208), e vinse poi per mare una flotta punica di 83 navi, catturandone 18; nell'anno successivo, dopo un'analoga incursione condotta sulla costa vicino ad Utica, ingaggiò battaglia navale contro una flotta di 70 navi da guerra cartaginesi, affondandone quattro, catturandone 17 e disperdendo le altre. "Così divenuto sicuro il mare per la cacciata delle navi dei nemici, furono mandati a Roma grandi carichi di grano" [56]. Lo stesso Marco Valerio Levino era peraltro riuscito a liberare la Sicilia da tutti i presidi cartaginesi.

Circa la penisola iberica, a cui abbiamo già accennato, va ripetuto ch'essa aveva in quel conflitto un'importanza strategica primaria: "per abbattere Roma ... i Cartaginesi avevano bisogno di una solida base operative a di una sicura linea di comunicazioni. La prima fu stabilita in Spagna dal genio della famiglia Barca; la seconda non fu mai ottenuta. C'erano due possibili vie di comunicazione: una diretta, via mare, l'altra indiretta, attraverso la Gallia. La prima fu bloccata dal potere navale romano, la seconda fu resa pericolosa e, infine, interrotta con l'occupazione dalla Spagna settentrionale da parte dell'esercito romano. L'occupazione fu resa possibile dal controllo del mare, che i Cartaginesi non misero mai in pericolo. In tal modo, rispetto ad Annibale e alle sue basi, Roma occupava due posizioni centrali: Roma stessa e la Spagna settentrionale, unite da una facile linea interna di comunicazioni, il mare, attraverso il quale le due posizioni si davano continuo, reciproco supporto" [57].

Nel 211 a.C., il giovane Publio Cornelio Scipione (24 anni) ottenne il comando delle operazioni in Spagna, che avevano subito una battuta d'arresto l'anno prima, dopo la tragica morte dei due Scipioni (il padre e lo zio del giovane Publio), caduti in battaglie terrestri. Il nuovo comandante, giunto in Spagna con 30 quinqueremi, iniziò ad operare nella primavera del 210 a.C., decidendo di assaltare innanzi tutto Cartagena (allora chiamata Nuova Cartagine) con un'azione congiunta navale e terrestre. Scipione aveva assegnato il comando della flotta al suo grande amico Caio Lelio, che mantenne l'incarico per tutta la durata della sua missione in Spagna ed anche per la successiva spedizione in Africa. Con la presa di Cartagena, Scipione privò il nemico della sua principale base navale iberica, d'importanza fondamentale per i collegamenti con l'Africa e per la logistica delle forze cartaginesi in Spagna. Vi vennero catturate 18 navi da guerra (che vennero a sommarsi alle sue precedenti 35) e 63 navi onerarie, alcune col carico. L'anno seguente (209 a.C.), visto che le coste ispaniche erano libere da flotte puniche, egli fece sbarcare i militi navali, facendoli partecipare alle successive operazioni terrestri (per quasi quattro anni). Nel 206 a.C., Gade (l'odierna Cadice, sull'oceano Atlantico) ospitava l'ultimo consistente presidio dei Cartaginesi in Spagna; questi si erano infatti ormai ridotti nell'estremo lembo meridionale della penisola iberica, sotto il comando di Aderbale e di Magone, il terzo fratello di Annibale (Asdrubale, recatosi in Italia attraverso la Gallia per portare rinforzi ad Annibale, era stato sconfitto ed ucciso dai consoli romani). In quella situazione, Aderbale salpò da Gade diretto a Cartagine con otto triremi, precedute da una quinquereme; una flottiglia comandata da Lelio (una quinquereme e sette triremi), salpata da Carteia (porto situato nel golfo compreso fra le odierne città di Algeciras e Gibilterra), intercettò la formazione punica dando vita ad una battaglia navale nello Stretto. Sebbene il combattimento fosse sensibilmente influenzato dal gioco delle correnti, la quinquereme di Lelio riuscì ad affondare due triremi cartaginesi ed a immobilizzarne una terza. Dopo la vittoria navale romana, Aderbale si disimpegnò con le navi superstiti verso Cartagine. Poco dopo, Magone, avendo perso ogni speranza di poter ottenere qualche utile risultato in Spagna, abbandonò Gade, che venne così occupata dai Romani. Dopo aver portato a buon fine la propria missione in Spagna, Scipione consegnò quella provincia al nuovo pretore e salpò con la sua flotta per rientrare a Roma (206 a.C.).

Giunto nell'Urbe, Publio Cornelio Scipione (a 30 anni) venne eletto console per il 205 a.C.; il Senato diede il suo assenso alla preparazione di una spedizione navale in Africa ed assegnò a Scipione 30 navi da guerra che si trovavano già in Sicilia. A Scipione, inoltre, vennero spontaneamente offerte dalle città d'Italia ingenti quantità di materiali per la costruzione e l'armamento di altre 30 navi da guerra (20 quinqueremi e 10 quadriremi), che vennero varate 44 giorni dopo che il legname era stato portato dai boschi. Dopo aver fatto effettuare a Caio Lelio, con le 30 navi vecchie, un'incursione sulle coste di Ippona Regia (odierna Bona) nell'estate del 205 a.C., Scipione si predispose a passare in Africa. Poco prima, 80 navi onerarie cartaginesi, cariche di rifornimenti per Annibale, erano state catturate nelle acque della Sardegna dal pretore Gneo Ottavio. Scipione, raccolte circa 400 navi onerarie per il trasporto dell'esercito, salpò da Lilibeo, scortando il convoglio con 40 quinqueremi. Sull'andamento dello sbarco, avvenuto nei pressi di capo Farina, si trova ogni tanto qualche accenno a possibili problemi incontrati nel raggiungere la spiaggia. La più antica descrizione (del II secolo a.C.) dello sbarco navale in Africa, contenuta nel seguente breve frammento della "Guerra Annibalica" di Lucio Celio Antipatro, rende, invece, l'idea di celerità e sincronismo, in linea con i canoni delle moderne operazioni anfibie: "Tutti raggiungono contemporaneamente la terra con la flotta, sbarcano dalle navi e dalle imbarcazioni e, stabilito l'accampamento, innalzano le insegne" [58].

Scipione, dopo di aver mantenuto il campo sulla costa, in collegamento con la flotta, si portò nei pressi di Utica. L'assedio di Utica venne iniziato nel 204 a.C.; nell'autunno dello stesso anno, essendo sopraggiunte le poderose forze del re Siface (che si era alleato con i Cartaginesi), divenne prioritario predisporsi a fronteggiare quella nuova minaccia. Nel 203 a.C., pertanto, l'assedio navale di Utica venne utilizzato da Scipione con finalità di diversione, in modo da consentire il conseguimento della sorpresa nei successivi attacchi condotti dalle forze terrestri. Scipione riportò così una grande vittoria ai Campi Magni, inducendo i Cartaginesi a richiamare Annibale dall'Italia. In quello stesso anno i Cartaginesi effettuarono un attacco alle navi romane che assediavano Utica e catturarono delle navi onerarie romane in violazione di una tregua concessa dai Romani. Annibale, tornato in Africa l'anno successivo (202 a.C.), venne finalmente battuto da Scipione nella celebre battaglia combattuta nei pressi di Zama. Subito dopo la vittoria, Scipione si portò con tutta la flotta (circa 90 navi da guerra) ad effettuare una dimostrazione navale davanti al porto di Cartagine: ne uscì una nave con dieci parlamentari inviati da Annibale per richiedere la pace.

Le durissime condizioni di pace (che Annibale giudicò comunque benigne) includevano la consegna di tutte le navi da guerra, eccettuate dieci triremi, ed il divieto di muovere guerra ad alcun popolo senza il consenso dei Romani; esse vennero accettate dai Cartaginesi e ratificate agli inizi del 201 a.C.. "I Cartaginesi consegnarono le navi da guerra. ... Le navi furono per ordine di Scipione portate al largo e incendiate; secondo alcuni, erano 500 navi a remi d'ogni specie; e la improvvisa vista dell'immenso rogo fu tanto lagrimevole per i Punici quanto sarebbe stato l'incendio della stessa Cartagine" [59]. Conclusa la sua missione in Africa, Scipione rientrò a Roma ove gli venne accordato il trionfo, oltre al soprannome Africano.

SOMMARIO

VI. LE GRANDI COALIZIONI MARITTIME


Subito dopo il termine della seconda guerra Punica, Roma si trovò coinvolta in due altri conflitti sviluppatisi, in successione, nell'area del mare Egeo. In entrambi i casi, i Romani intervennero in difesa delle città libere della Grecia contro le mire espansionistiche di due ambiziosi sovrani del mondo ellenistico: Filippo V, re di Macedonia (II guerra Macedonica: 200-197 a.C.), e Antioco III il Grande, re di Siria (guerra Siriaca: 191-189). In entrambi i casi, inoltre, i Romani associarono alle proprie operazioni marittime le forze di svariate nazioni alleate, fra le quali ebbero un ruolo nettamente preminente le due nazioni che erano in possesso delle maggiori capacità navali in quell'area: Rodi ed il regno di Pergamo. Pertanto, nella maggior parte delle azioni che si svolsero nelle acque dell'Egeo, operò una forza navale multinazionale costituita dalla flotta romana (da 50 a 70 quinqueremi), dalla flotta regia di Pergamo (24 quinqueremi) e dalla flotta rodia (20-22 navi coperte); alla flotta romana erano normalmente aggregate svariate unità minori rese disponibili dalle marinerie italiche e da altre città marittime alleate. Il nucleo più consistente di questa forza navale fu sempre costituito, occorre sottolinearlo, dalle navi di Roma; coerentemente, il comando supremo delle operazioni navali venne sempre detenuto dal comandante della flotta romana. Insomma, sarebbe difficile non rilevare una profonda similitudine fra tale struttura e quella delle varie forze navali multinazionali istituite anche negli anni più recenti per fronteggiare esigenze di sicurezza correlate con le crisi internazionali. E se vi era similitudine nella struttura, vi fu anche similitudine nelle finalità prevalentemente politiche (più che militari) di queste aggregazioni: i Romani non avvertivano tanto l'esigenza di ottenere dei rinforzi (anche se questi comportavano comunque un utile risparmio finanziario), quanto quella di coinvolgere una coalizione quanto più possibile ampia nel contrastare il "prepotente" di turno.

Il coinvolgimento di Roma in quel teatro era scaturito dalla minaccia posta dal potenziamento della flotta macedone e dalle richieste di aiuto pervenute dagli Ateniesi, direttamente minacciati d'invasione dai Macedoni. Nel 200 a.C., pertanto, il console Publio Sulpicio Galba dovette innanzi tutto convincere il popolo (che pareva piuttosto restio) ad approvare la spedizione nell'Ellade. Ed egli fece leva su di una tesi essenzialmente marittima, sostenendo - come diremmo oggi - l'opportunità di un tempestivo controllo delle aree di crisi oltremare, in modo da evitare l'estensione del conflitto e le conseguenti ripercussioni sugli interessi e sulla sicurezza nazionale. Poiché tale criterio era già stato felicemente adottato nella prima guerra Macedonica, con l'invio della flotta di Marco Valerio Levino nelle acque elleniche, egli ricordò che quello stesso "Filippo che si era già accordato con Annibale, per mezzo di legati e di lettere, per fare uno sbarco in Italia, non poté muoversi dalla Macedonia perché gli fu mandato contro con una flotta Levino che gli portava la guerra in casa. E quello che si fece allora, quando avevamo in Italia un nemico come Annibale, non ci decideremo a farlo ora, dopo aver cacciato dall'Italia Annibale, dopo aver sconfitto i Cartaginesi?" [60]. In questo nuovo conflitto, la flotta romana, dopo aver efficacemente concorso alla difesa di Atene e delle città costiere dell'Attica (Pireo, Eleusi e Megara) dagli attacchi macedoni, aggregò le navi di Pergamo e di Rodi, con cui effettuò delle operazioni congiunte nel mare Macedonico (Egeo settentrionale) ed assicurò la presa di diverse città costiere. Il ruolo delle forze navali di quella coalizione era soprattutto quello di esercitare una dissuasione nei confronti della flotta macedone (che prese il mare, infatti, solo in qualche sporadica occasione) e di effettuare operazioni in costa a sostegno ed integrazione delle operazioni terrestri. Al termine del conflitto, le condizioni di pace imposte al re macedone riflessero la volontà del Senato di acquisire il controllo dei tre punti chiave della Grecia (i porti di Demetriade, Calcide e Corinto), prevedendo anche la consegna di tutte le navi da guerra coperte, ad eccezione di cinque e della nave regia (troppo grande e difficilmente manovrabile).

Cinque anni dopo la pace fra i Romani e Filippo (192 a.C.), Antioco, con 100 navi da guerra e 200 da trasporto, sbarcò in forze a Demetriade, avviando così la sua offensiva contro la Grecia. L'anno dopo, Roma diede inizio alle operazioni contro Antioco, che si riportò presto ad Efeso, sul litorale asiatico. Il comando della nuova missione oltremare venne assegnato al console Manio Acilio Glabrione, mentre la flotta venne data al pretore Caio Livio Salinatore. Con tale comandante, la flotta romana giunse sulla sponda asiatica verso l'autunno 191 a.C., e continuò ad operare in quelle acque fino alla resa del re Antioco. Dopo aver aggregato le navi del re di Pergamo (ma non quelle di Rodi, che erano in ritardo), la flotta comandata da Caio Livio si scontrò con quella di Antioco, comandata da Polissenida, nella battaglia navale di Corico (porto a nord della penisola Eritrea). Polissenida, "quando vide che era nettamente inferiore quanto a valore dei combattenti, spiegate le vele di trinchetto si lasciò andare a fuga disordinata" [61], riuscendo a riparare nel porto di Efeso. Nell'inseguimento, la flotta romana gli affondò dieci unità e ne catturò tredici con i relativi equipaggi. La sola perdita subita dalla parte dei Romani fu quella di una nave alleata. Nel successivo inverno 191-190, Antioco si impegnò soprattutto a potenziare la sua flotta, "non volendo essere totalmente escluso dal dominio del mare" [62]. Poi, visto che il nuovo console Lucio Cornelio Scipione (che era accompagnato da suo fratello Publio, l'Africano) si prefiggeva di affrontarlo in Asia minore, Antioco, "considerando che soltanto se si fosse saldamente impadronito della supremazia marittima avrebbe potuto impedire agli eserciti di fanteria di passare in Asia e avrebbe allontanato definitivamente la guerra da quel territorio, decise di scendere in mare e di risolvere la situazione per mezzo di una battaglia navale" [63]. L'occasione si presentò nell'estate 190 a.C., nelle acque a sud della penisola Eritrea, nella grande battaglia navale di Mionneso in cui si scontrarono la flotta comandata da Lucio Emilio Regillo (80 navi, di cui una cinquantina di Roma e 22 di Rodi) e quella comandata da Polissenida (89 navi): la flotta siriaca perse 42 navi (di cui 13 catturate, le altre affondate o incendiate), mentre due sole unità vennero perse dai Romani. "Antioco ne fu atterrito: e poiché, privo di ogni dominio sui mari, non s'illudeva di poter difendere posizioni lontane, richiamò le forze che presidiavano Lisimachia affinché non fossero sopraffatte dai Romani" [64].

Lo sbarco navale in Asia venne quindi effettuato con unità delle flotte di Roma, di Pergamo e di Rodi; esso avvenne in assenza di qualsiasi contrasto da parte delle superstiti navi di Antioco. Poco dopo il re di Siria, sconfitto anche sul terreno (Magnesia), accettò le condizioni di pace presentate dal console. Le clausole marittime del trattato di pace con Antioco, ratificato nel 188 a.C., privavano il re della sua flotta, salvo pochissime unità a cui era comunque vietato allontanarsi dalle acque costiere della sponda orientale del Mediterraneo (costa siriaca e palestinese). In quello stesso anno, la flotta di Antioco (50 navi da guerra coperte) venne distrutta con il fuoco, a Patara, da Quinto Fabio Labeone, comandante della flotta romana. A testimonianza della vittoria navale di Mionneso, venne eretto nel Campo Marzio il tempio dei "Lari marinari" - protettori della Flotta - dedicato nel 179 a.C., sul cui portale venne affissa una lapide con un'iscrizione [65] (che si volle anche riprodurre sul tempio di Giove Capitolino, l'edificio più sacro di Roma) in cui traspare con evidenza l'importanza della vittoria navale di Mionneso, che fu determinante per la sconfitta del re Antioco, nonché la fierezza dei Romani per l'ulteriore riprova della loro superiorità marittima.

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VII. IL CONSOLIDAMENTO TRANSMARINO


Fra il 171 ed il 168 a.C. i Romani furono nuovamente impegnati contro i Macedoni (III guerra Macedonica), il cui re Perseo, ergendosi a paladino del mondo ellenico, tentò di riscattare la sconfitta subita dal padre Filippo. La flotta romana, comandata da Gneo Ottavio, contribuì efficacemente alla vittoria ottenuta dal console Lucio Emilio Paolo nella battaglia di Pidna (vicino alla costa) ed inseguì poi il re fuggiasco fino all'isola di Samotracia. La cattura di Perseo venne equiparata ad una "vittoria navale" e fece meritare a Gneo Ottavio il trionfo navale. In quello stesso anno (168 a.C.), Lucio Anicio era entrato con un'altra flotta in Adriatico (III guerra Illirica) e vi aveva sconfitto il re Genzio, alleato di Perseo, dopo avergli sbaragliato la flotta ed espugnato la capitale Scodra (odierna Scutari, in Albania) - ove lo stesso re cadde prigioniero -, ed avendo catturato un totale di ben 220 navi illiriche.

All'inizio del settimo secolo dalla fondazione dell'Urbe, dal 601 al 603 U.c. (anni "Urbis conditae", pari a 153-151 a.C.), i Romani vennero nuovamente chiamati a combattere in Spagna, in quella durissima guerra Celtiberica che vide le prime gesta di Scipione Emiliano. I primi decenni di quello stesso secolo furono contraddistinti dalla adamantina ed esemplare fermezza che accompagnò la conclusione delle tre maggiori guerre condotte oltremare: la III ed ultima guerra Punica, conclusa nel 608 U.c. (146 a.C.) con la distruzione di Cartagine, la guerra Achea, conclusa in quello stesso anno con la distruzione di Corinto, e la guerra Numantina, conclusa nel 621 U.c. (133 a.C.) con la distruzione di Numanzia. Si trattava evidentemente di misure connotate da una forte efficacia dissuasiva, intraprese al fine di consolidare l'egemonia romana e ridurre i rischi a cui gli interessi romani oltremare erano inevitabilmente esposti a causa dei sempre possibili cambi d'umore dei vari popoli o delle personali ambizioni dei singoli sovrani o governanti. Ci soffermeremo soltanto sulla III guerra Punica poiché con essa si concluse il ciclo delle terribili sfide da cui sbocciò il potere marittimo di Roma, che doveva completamente annientare non solo quello di Cartagine, ma la stessa Cartagine.

Fin dall'inizio della terza guerra Macedonica, l'attenzione di Roma era stata richiamata sui Cartaginesi, accusati da Massinissa (nel 172 e 171) di voler costruire una grande flotta. Ma i Romani iniziarono realmente a preoccuparsi della possibile rinascita della potenza navale punica a partire dal 155, pungolati dalle reiterate esortazioni di Marco Porcio Catone. Dopo aver inviato ben tre legazioni in Africa, il Senato si convinse della necessità dell'intervento di Roma: la guerra contro Cartagine venne dichiarata nel 149 a causa di una duplice violazione del trattato di pace: l'anno precedente, infatti, Cartagine aveva dichiarato guerra a Massinissa, alleato di Roma, ed aveva costruito più navi da guerra del massimo numero consentito (10 triremi). Alla dichiarazione di guerra, Cartagine decise subito di arrendersi: le venne imposto di consegnare subito 300 ostaggi e di aderire alle ulteriori direttive che i Consoli avrebbero impartito in loco.

I consoli salparono per l'Africa, con una "flotta costituita da cinquanta quinqueremi, da cento imioli e da molte altre unità aperte e da trasporto. Quella flotta trasportava ottantamila fanti e quattromila cavalli" [66]. Approdati ad Utica, essi richiesero ed ottennero immediatamente la consegna di tutto il materiale bellico di Cartagine: la flotta punica venne così incendiata [67].

Giunse infine il momento, per i consoli, di rendere nota la terza ed ultima clausola, quella che, più di ogni altra, interessava i Romani: lo spostamento della città nell'entroterra, a "non meno di diecimila passi [~15 km] dal mare" [68] (raffinata interpretazione del più brutale "Carthago delenda est" di Marco Porcio Catone), in modo da inibire per sempre il risorgere del potere marittimo cartaginese. Ma i Cartaginesi, sentita l'enormità della richiesta, optarono per la guerra.

Iniziò così l'assedio, marittimo e terrestre, di Cartagine. Data l'accanita resistenza opposta dai Punici, le operazioni si protrassero nei primi due anni (149-148) senza risultati apprezzabili. Pertanto, nei comizi per l'elezione dei successivi consoli, il popolo candidò Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio di Lucio Emilio Paolo - il vincitore di Perseo - che lo aveva dato in adozione al figlio di Scipione l'Africano); questi si era infatti già distinto come legato in Spagna nel 151 (guerra Celtiberica) e come tribuno militare in Africa nel 149 (primo anno della terza guerra Punica). Scipione Emiliano, proclamato console, salpò da Roma nella primavera del 147 a.C.: non appena giunto nelle acque africane, recò immediato soccorso, con le proprie navi, a Lucio Ostilio Mancino, il comandante della flotta dell'anno precedente, che si trovava in posizione di estrema precarietà dopo aver effettuato uno sbarco temerario in un punto isolato delle fortificazioni a mare della città di Cartagine. Mancino "era già sul punto di precipitare quando apparvero le navi di Scipione, rapide spaventevolmente e piene di soldati da ogni parte" [69].

Scipione Emiliano iniziò quindi le proprie operazioni attaccando la parte della città chiamata Megara (i Cartaginesi si ritirarono perciò nell'area del porto e nella cittadella, chiamata Birsa) e tagliando l'accesso terrestre alla penisola su cui si trovava Cartagine, mediante lo scavo di un duplice fossato per tutta la larghezza dell'istmo. Nel contempo, le navi della sua flotta venivano mantenute in pendolamento davanti alla città per la prosecuzione del blocco navale; ciononostante, alcune veloci navicelle a vela, approfittando dei periodi in cui soffiava un vento molto teso dal mare, riuscivano occasionalmente a forzare il blocco, portando limitate quantità di cibo che venivano distribuite ai soldati scelti di Asdrubale.

Scipione decise allora di bloccare fisicamente l'entrata del porto: facendo lavorare alacremente i suoi soldati a terra, ed avvalendosi certamente delle navi per il trasporto e la posa in acqua dei grandi massi, egli "tirò nel mare un argine lungo, cominciandolo da quel tratto che, posto tra la laguna ed il mare, si chiama "lingua", continuandolo nell'alto mare ed indirizzandolo fin sopra l'entrata. Faceva poi contenere quell'argine con dei macigni grandi e serrati, affinché non fossero dissipati dai flutti. Era questo argine largo ventiquattro piedi [~7,1 metri] in superficie, e quadruplo alla base" [70].

Ma i Cartaginesi reagirono con tutte le loro residue energie: avendo ancora, in quel periodo, il controllo di tutta l'area del duplice porto, mercantile e militare (Cotone), essi lavorarono occultamente per poter riattivare l'accesso al mare, scavando un'altra bocca che doveva aprirsi verso levante; allo stesso tempo e con altrettanta segretezza, utilizzando tutto il materiale ancora disponibile nei loro arsenali, costruirono centoventi navi da guerra coperte nell'arco di due mesi [71].

Tre giorni dopo l'apertura della nuova bocca del porto, questa nuova flotta uscì a confrontarsi con quella romana. Iniziò così la battaglia navale di Cartagine (147 a.C.), che fu l'ultima combattuta da una flotta punica. L'intento dei Cartaginesi era quello di infliggere ai Romani danni tali da costringerli a rimuovere - o perlomeno alleggerire significativamente - il blocco navale. Alla flotta romana, la cui forza era incentrata sulle solite, poderose, quinqueremi, erano aggregate alcune unità delle città alleate. La battaglia, estremamente accanita, rimase sostanzialmente equilibrata fino al tardo pomeriggio, quando i Cartaginesi - verosimilmente esausti ed in affanno - decisero di sospendere il combattimento e di rientrare in porto prima del tramonto. Ma le navi più piccole, accorse prima di tutte verso la stretta imboccatura, entrarono in collisione, ostruendo l'ingresso a tutte le altre, che fuggirono verso l'argine antistante le mura della città. Esse vennero così bloccate dalle navi romane, che, con l'aiuto di quelle alleate, continuarono a speronare le unità puniche fino a quando il buio della notte non permise la prosecuzione delle operazioni. In seguito alla vittoria navale romana, le poche unità superstiti dei Cartaginesi non tentarono più alcuna sortita, mentre la flotta romana continuò le operazioni di blocco navale.

Dopo la battaglia navale, nel corso della quale si era resa palese la valenza dell'argine ove si erano accostate le navi puniche, Scipione Emiliano volle innanzi tutto impadronirsene, e vi fece poi costruire un muro di altezza pari alle mura nemiche. Quindi, prima di procedere all'assalto finale, si mosse con la flotta per eliminare, in collaborazione con dei reparti terrestri, ogni residuo supporto esterno alla resistenza di Cartagine. Egli prese così la città di Neferi, dopo aver sconfitto la guarnigione che, da quei luoghi, inviava viveri a Cartagine.

Trascorso l'inverno 147-146 a.C., i Romani poterono raccogliere i frutti delle loro precedenti operazioni. Scipione espugnò la cittadella (Birsa) ed il porto militare (Cotone). Da lì, la città venne conquistata, strada per strada, nell'arco di sei giorni e sei notti. Scipione inviò quindi a Roma una nave recante l'annunzio della vittoria. La nave risalì il Tevere fino al porto fluviale dell'Urbe, suscitando presso la popolazione un entusiasmo liberatorio da tutte le ansie e le inquietudini precedentemente sofferte. Va peraltro osservato che quei timori, sebbene alimentati dall'ancor fresco ricordo della devastante campagna di Annibale in Italia, erano principalmente legati a considerazioni marittime: qualche anno prima, uno dei più efficaci interventi di Catone per sollecitare l'intervento di Roma contro l'ancor florida e vicinissima Cartagine era stato quello di mostrare ai Senatori un grosso fico maturo proveniente dal territorio punico, dichiarando, al loro stupore per la bellezza e la freschezza del frutto, che la nazione che lo produceva era "a tre giorni di navigazione da Roma" [72].

La Commissione dei Dieci inviata in Africa dal Senato per stabilire il futuro assetto di quel territorio decretò che Scipione dovesse demolire quanto rimaneva di Cartagine e che, in avvenire, più nessuno vi dovesse abitare [73]. Ampie zone della città erano già preda del fuoco appiccato dagli stessi abitanti negli ultimi giorni della lotta. Cartagine continuò a bruciare per diciassette giorni consecutivi.

Publio Cornelio Scipione Emiliano celebrò il trionfo nel 145 a.C., e meritò anch'egli, come il nonno adottivo, il soprannome di Africano (a cui venne poi aggiunto, dieci anni dopo, quello di Numantino).

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VIII. LA TRAVAGLIATA COSTRUZIONE DELL'IMPERO


Con la distruzione di Cartagine, i Romani ottennero, si, la rimozione della più temibile minaccia alla loro sicurezza ed al loro predominio sul mare, ma essi si sarebbero anche privati del più credibile e pressante incentivo a salvaguardare l'integrità delle proprie capacità belliche: è questa la tesi di alcuni apprezzati storici antichi (sopra tutti Sallustio), che imputarono alla stessa causa l'insorgere degli egoismi e della corruzione. Fra i commentatori moderni, quei pochi che si sono soffermati sulle vicende navali del I secolo a.C. hanno voluto estendere quella tesi, sostenendo che Roma avrebbe addirittura rinunciato a mantenere delle proprie flotte, vanificando la già acquisita supremazia marittima. Purtroppo la ricostruzione storica di svariati eventi occorsi in quel periodo si basa solo su pochi scarni frammenti, che poco ci dicono sugli avvenimenti di cui trattano e che nulla potrebbero comunque dirci su tutto il resto. Pertanto, al fine di trovare qualche risposta soddisfacente, occorre considerare le peculiarità politiche e militari di quel periodo storico, gli indizi navali presenti nei testi pervenutici e la coerenza dei grandi eventi marittimi che hanno portato Roma all'assoluto dominio dei mari.

In quel periodo storico, Roma venne investita da una "crisi istituzionale" la cui origine non va ricercata, come inevitabilmente fecero i contemporanei, nell'affievolimento dei tradizionali valori morali, nel dilagare della corruzione e nel prevalere degli interessi di fazione su quelli dello Stato; presso qualsiasi società, questi aspetti sono presenti - in maggiore o minore misura - in tutte le epoche, e si riflettono nelle tristezze della cronaca quotidiana. Quella crisi non fu altro che una inevitabile febbre della crescenza, poiché Roma era passata dal controllo problematico di solo una parte della Penisola italiana alle proiezioni oltremare in Spagna, in Africa, nella penisola balcanica, sulle coste asiatiche dell'Egeo e su tutte le principali isole bagnate dai mari che circondano l'Italia. Vi erano inoltre degli interi regni che stavano passando sotto il suo dominio, essendo stati lasciati in eredità al popolo romano dai rispettivi sovrani (Pergamo nel 133 a.C., Cirenaica nel 96 e Bitinia nel 74). L'ammirevole struttura organizzativa della Repubblica non era stata concepita per gestire gli interessi di un Impero in via di costituzione ed in continua espansione, né poteva più tutelarli in modo adeguato. Sul piano politico, le lotte senza esclusione di colpi fra Mario e Silla, Pompeo e Cesare, Antonio e Ottaviano, ancorché alimentate da motivate ambizioni dei contendenti, non furono altro che gli effetti perversi della necessaria ricerca di un più rispondente assetto istituzionale, ricerca che giunse a compimento con la costruzione del nuovo ordinamento del principato augusteo. Sotto il profilo militare, quelle lotte determinarono non pochi scompensi, aggravati dalla natura non permanente che ebbero le forze armate (ivi incluse, beninteso, quelle marittime) per tutto il periodo della Repubblica: le flotte, come le legioni, venivano allestite ogni volta che se ne verificava l'esigenza; al termine di quell'esigenza gli equipaggi (come le legioni) venivano congedati; e per ricostituirli occorreva ricominciare tutto daccapo. Questo spiega che, se le contese politiche interne non consentivano di far approvare in tempo utile la costituzione di una flotta, si rischiava di doverne fare a meno (come accadde a Silla agli inizi della prima guerra Mitridatica), e di dover fare affidamento sulle sole navi recuperate dagli alleati (come fece Lucullo, per conto di Silla), da affiancare poi alle navi romane che nel frattempo si facevano costruire (come fecero Silla nell'inverno 86-85 e Lucullo in quello 73-72). Quando si parla di navi alleate, peraltro, occorre ricordare che una loro presenza minoritaria in tutte le flotte di Roma era del tutto normale (com'era normale l'analoga presenza di reparti alleati nelle legioni). Va infine notato che una diversa considerazione deve essere riservata alle navi costruite ed equipaggiate nelle provincie (soprattutto in Sicilia e nelle provincie d'Africa e d'Asia), che erano poste a tutti gli effetti sotto la sovranità di Roma: poiché quelle navi erano di proprietà dello Stato romano e tenuto anche conto del carattere spiccatamente cosmopolita del nascente Impero, sarebbe illogico, oltre che anacronistico, considerare che quelle fossero navi alleate anziché romane.

Per quanto concerne gli "indizi navali" reperibili nei vari frammenti, limitandoci al periodo fra il termine della guerra Numantina e l'inizio della I guerra Mitridatica, che è quello meno documentato, troviamo innanzi tutto la guerra Balearica (123-122) in cui Quinto Cecilio Metello con la sua flotta rimosse la piaga della pirateria dalle isole Baleari [74]. Successivamente, nell'intero periodo della guerra Giugurtina (111-105) i Romani mantennero oltremare un esercito di oltre 40 mila uomini [75], più volte avvicendato e sempre supportato logisticamente dalle navi romane, che assicurarono anche il collegamento con le acque della Tripolitania (ove Leptis Magna aveva richiesto la protezione di Roma [76]): oltre a svariate centinaia di navi onerarie, vi deve certamente essere stata una flotta di navi da guerra, commisurata con le esigenze di sicurezza e con il rango consolare dei vari comandanti in capo avvicendatisi in Africa. Subito dopo, nella guerra Cimbrica (104-101), una flotta - citata da Furio Anziate [77] - venne utilizzata per il sostegno logistico delle truppe: la rilevanza delle esigenze navali è dimostrata dal fatto che Mario ebbe bisogno di scavare un canale navigabile (la celebre Fossa Mariana [78]) per consentire alle navi un transito in sicurezza evitando le secche delle bocche del Rodano. In quegli stessi anni, nelle guerre contro i Lusitani (108-94) vi fu certamente la necessità di una cospicua componente navale per il trasporto, il collegamento, l'avvicendamento ed il sostegno logistico delle forze. Questa presenza navale romana in acque oceaniche (probabilmente con base a Cadice) è anche dimostrata dal fatto che al pretore Quinto Servilio Cepione (108) venne attribuita la costruzione di un grande faro [79] nei pressi della foce del Beti (odierno Guadalquivir), mentre al proconsole Publio Licinio Crasso (96-93) venne addirittura attribuita una navigazione da Cadice alle isole Cassiteridi [80] (odierne Scilly, a sudovest della Cornovaglia), ricche di stagno e di piombo. Ancora nello stesso periodo, nella guerra Tracica (103-71) l'esigenza navale fu implicita nella collocazione oltremare dell'area di operazioni; la particolare ferocia attribuita ai Traci dovrebbe aver reso irrinunciabile l'uso di navi da guerra romane. Contemporaneamente, nella prima guerra Piratica (102-100), è noto che Marco Antonio (l'oratore) ebbe una propria flotta che venne portata dallo Ionio in Egeo facendola transitare - per via terrestre - dall'Istmo di Corinto [81]. Infine, nella guerra Sociale (90-88), la flotta romana - di cui conosciamo il comandante in carica nel 89, il legato Aulo Postumio Albino [82], e pochi sprazzi su qualche azione compiuta da un certo Otacilio e da altri [83] - venne integrata con qualche unità proveniente dalla provincia romana d'Asia e da alcune città marittime alleate: due triremi da Eraclea pontica [84], alcune navi da Smirne [85] ed altre tre navi provenienti da Clazomene (nel golfo di Smirne), Mileto e Caristo (Eubea) [86]. Tirando le somme, ci sembra ragionevole desumere, dai pur scarni elementi di cui disponiamo, che nel periodo considerato le attività navali di Roma continuarono ad essere caratterizzate da una convincente vitalità.

Considerando poi, fra gli eventi che seguirono, quelli di maggiore spicco sotto l'ottica navale e marittima, si vede bene che il momento di effettiva crisi si verificò proprio all'inizio della I guerra Mitridatica (88-84), in cui Silla si trovò - primo ed unico fra i comandanti in capo romani - a dover condurre la prima fase di una grande operazione oltremare senza disporre di una propria flotta; la situazione era peraltro stata aggravata da Mitridate che aveva promosso, in quegli anni, un'abnorme proliferazione della pirateria, che agiva a suo favore. Come si è già accennato, la forza navale costituita dalle navi alleate recuperate da Lucullo e dalla flotta romana fatta costruire da Silla consentì a quest'ultimo di sbarcare in Asia minore e di ricevere la resa di Mitridate, che rientrò nel suo regno dopo aver consegnato ai Romani 70 navi da guerra. Silla ebbe poi a disposizione ben 1200 navi per trasferire il suo esercito da Durazzo a Brindisi. Lucullo esercitò quindi il comando della III guerra Mitridatica (74-66) in cui si avvalse sia di una flotta procuratagli dalla provincia romana d'Asia, sia di una nuova flotta ch'egli stesso fece costruire: sbaragliò le flotte di Mitridate, costringendolo alla fuga, e s'impadronì delle principali città costiere del Ponto; nel suo trionfo a Roma, fece sfilare 110 navi da guerra rostrate catturate al nemico. Nel frattempo, Gneo Pompeo Magno, investito del comando supremo della guerra Piratica (67), aveva rastrellato con 500 navi l'intero Mediterraneo liberandolo dalla piaga della pirateria cilicia. Ciò fece dire a Cicerone, circa dieci anni dopo: "Già da lungo tempo noi vediamo che quel mare immenso, i cui movimenti tumultuosi avevano non solamente interrotto le corse dei nostri vascelli, ma arrestata ogni comunicazione fra le nostre città e le nostre armate, noi vediamo che quel mare, grazie al valore di Pompeo ... dall'Oceano fino all'estremità del Ponto è sicuro e tranquillo come fosse un porto solo e ben chiuso" [87]. Lo stesso Pompeo Magno portò quindi a termine la III guerra Mitridatica (66-64), avvalendosi pienamente dell'acquisito dominio del mare: "Pompeo, disseminata l'intera flotta a guardia del mare tra la Fenicia e il Bosforo [Cimmerio], mosse all'attacco di Mitridate" [88] (il Bosforo Cimmerio è l'odierno stretto di Kerc, fra il mar Nero ed il mare d'Azov). Nel corso delle sue due felicissime campagne (contro i pirati ed in medio-oriente), Pompeo catturò ben 800 navi da guerra, di cui 700 vennero condotte nei porti d'Italia. Nella formula ufficiale del trionfo venne esplicitamente scritto ch'egli aveva "restituito il dominio del mare [in latino: "imperium maris"] al popolo romano" [89]. Venne poi Giulio Cesare, reduce da esaltanti imprese navali sulle acque dell'Oceano: la vittoria navale riportata nelle acque della Bretagna (nel 56 a.C.) contro la poderosa flotta di 220 navi della coalizione "Armoricana" (tutte le popolazioni della regione costiera della Gallia settentrionale, fra la Loira ed il Reno) ed i due sbarchi navali in Britannia (anni 55 e 54). Allo scoppio della guerra civile contro Pompeo egli si imbatté nella ostilità di Marsiglia; dispose pertanto che la città fosse assediata e sottoposta al blocco navale (estate 49) da parte della flotta di Decimo Bruto: i Romani attuarono un blocco efficace e riportarono due vittorie navali sulla flotta marsigliese (acque di Marsiglia e di Taurento); ciò indusse la città ad arrendersi poco dopo, rinunciando al suo ruolo di potenza marittima (era l'ultima, nel Mediterraneo occidentale, ad essersi mantenuta fino ad allora indipendente da Roma, ancorché tradizionalmente amica ed alleata). Tralasciamo le altre vicende navali di questa guerra civile, poiché non ebbero dirette implicazioni sul potere marittimo di Roma, salvo la tendenza verso un costante potenziamento delle risorse navali da guerra: "Les guerres civiles de la fin de la République ont vu un accroissement considérable des forces navales disponibles en Méditerranée: dans la mesure où le contrôle de la mer était indispensable pour transporter des troupes et s'assurer la maîtrise de l'Empire, chacun des adversaires a cherché à développer sa puissance maritime: Pompée d'abord, puis César, Sextus Pompée, enfin Antoine et Octave ont disposé d'effectifs non négligeables, en constante augmentation" [90]. Sono invece di fondamentale importanza le vittorie navali successivamente ottenute da Ottaviano, grazie al genio del suo grande ammiraglio Marco Agrippa, contro le flotte piratiche ricostituite da Sesto Pompeo (vinte a Milazzo e sbaragliate a Nauloco, il 3 settembre 36 a.C.) e contro la flotta egizia di Antonio e Cleopatra (Azio, 2 settembre 31 a.C.): tali vittorie cancellarono le ultime due potenze navali (entrambe temibilissime), non soggette a Roma, esistenti nel Mediterraneo.

SOMMARIO

IX. LA PAX ROMANA


L'anno dopo la vittoria navale di Azio, le forze romane sbarcarono in Egitto, ove Ottaviano poté facilmente cogliere il frutto di quella sua perentoria affermazione sul mare: il suicidio di Cleopatra segnò la fine della monarchia tolemaica alessandrina, a cui seguì l'annessione dell'Egitto al nascente Impero. Roma aveva così completato la sua espansione su tutte le rive del Mediterraneo, che era in tal modo diventato il grande mare interno che i Romani a giusto titolo poterono chiamare "Mare Nostrum".

Le porte del tempio di Giano, aperte solo in tempo di guerra, vennero chiuse l'11 gennaio 29 a.C.. Ottaviano, che ricevette poi il titolo di Augusto, ebbe il grande merito storico di comprendere che l'Impero aveva a quel punto raggiunto la sua estensione ottimale; venne in tal modo ad instaurarsi la "Pax Augusta", poi detta "Pax Romana", cioè quella situazione di stabilità e di sicurezza che favorì la prosperità dell'Impero e la diffusione della civiltà. Tutto questo venne basato sulla maestà di Roma, sull'applicazione delle sue leggi, su di una ramificata struttura amministrativa, su di una fitta ed efficiente rete di comunicazioni terrestri e, soprattutto, marittime, nonché su di un apparato militare divenuto permanente, ma che comunque rimase strettamente commisurato all'entità dei maggiori fattori di rischio (anche in campo terrestre, il numero e la consistenza delle legioni erano tutt'altro che esuberanti a fronte della sterminata estensione dei confini dell'Impero).

Per quanto concerne, in particolare la Marina, questa venne costituita ed organizzata su base permanente da Marco Agrippa dopo la vittoria navale di Azio, cioè dopo che Roma ebbe acquisito non solo il completo dominio del mare, ma addirittura la piena sovranità sul Mediterraneo. Vi si può certamente ravvisare un aspetto paradossale: quasi come se si fossero giocate tutte le partite in calendario mettendo insieme, ogni volta, una squadra raccogliticcia e poi ci si fosse decisi a costituire una bella squadra permanente al termine del campionato; anzi: al termine di quello ci appare come l'ultimo campionato. In realtà il "campionato" non era finito: l'assenza di grandi potenze marittime non significava che il mare potesse ritenersi definitivamente sicuro; occorreva comunque mantenervi una presenza navale permanente, visibile e credibile per inibire il rifiorire di qualsiasi minaccia al regolare svolgimento delle attività marittime, alcune delle quali permanevano di necessità vitale per la sopravvivenza stessa dell'Urbe. Per tratteggiare a grandi linee il ruolo di quella nuova Marina militare di Roma, può risultare efficace l'estrema semplificazione adottata da Chester G. Starr: "The historic task of that navy was not to fight battles but to render them impossibles" [91]. Più che sulla celebrata potenza delle legioni (prevalentemente schierate ai più lontani confini terrestri), era sulla silenziosa operosità della Marina che poggiava la "Pax Romana" nel cuore dell'Impero, cioè nel bacino del Mediterraneo.

La rispondenza di questa Marina militare è dimostrata dal fatto che essa rimase costituita su base permanente per tutta la durata dell'Impero, subendo anzi talune espansioni per meglio rispondere alle esigenze di controllo di certe aree critiche. La sua struttura rimase comunque sempre articolata su due flotte principali in Italia (Miseno e Ravenna) e su di un certo numero di flotte minori dislocate nei punti più sensibili delle provincie, secondo un ordinamento che è stato ricostruito soprattutto sulla base delle testimonianze epigrafiche [92].

Ma il risultato più saliente della rispondenza dell'attività svolta dalla Marina militare consiste nello straordinario sviluppo dei traffici marittimi; a questo proposito, nel II secolo d.C., il retore Publio Elio Aristide poteva scrivere, parlando di Roma e del suo grande porto marittimo: "Il mare Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo e il centro del vostro dominio; e intorno al mare si stendono, "grandi per grande spazio", i continenti colmi di ricchezze sempre a vostra disposizione. ... Tutto quello che si produce e si fabbrica nei singoli paesi, qui si trova sempre, in quantità superiore ai bisogni. E così numerose approdano qui le navi mercantili, in tutte le stagioni, ad ogni mutare di costellazioni, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l'Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra. E così forti carichi si vedono arrivare dall'India e perfino dall'Arabia felice, da far venire il dubbio che in quei paesi siano rimasti spogli gli alberi, e gli abitanti debbano venir qui a domandare i loro prodotti quando ne hanno bisogno ... Partenze ed arrivi di navi si susseguono senza sosta; c'è da meravigliarsi che non nel porto ma nel mare ci sia abbastanza posto per tutte le navi mercantili" [93].

Al di là dell'enfasi retorica, le condizioni di sicurezza del Mediterraneo, unitamente all'allestimento di numerosi nuovi porti, consentirono il più intensivo sfruttamento delle linee di comunicazioni marittime, oltre al concomitante sviluppo di una flotta mercantile di dimensioni sbalorditive. "Il creare e mantenere questa flotta fu la più grande impresa marittima di Roma; allo stesso tempo essa servì egregiamente come un efficiente servizio passeggeri e trasporti. ... furono i Romani che idearono questo tipo di flotta e fu il loro spirito organizzativo che rimase alla base della sua organizzazione ed amministrazione. Per ritrovare uguale grandezza di navi e volume di carico dobbiamo arrivare alla compagnia delle Indie Orientali dell'inizio del sec. XIX" [94].

SOMMARIO

X. CONCLUSIONI


Prima di trarre le conclusioni, occorre sgomberare il campo dalla radicata prevenzione, che affligge molti studiosi dell'antichità, secondo cui i Romani sarebbero stati del tutto privi di familiarità con il mare ed avrebbero transitoriamente superato la loro avversione solo quando costretti dagli eventi, in mancanza di qualsiasi altra alternativa, ricorrendo comunque all'esperienza di comandanti ed equipaggi non romani, provenienti dalle ben più qualificate marinerie d'Italia e del mondo ellenico. Innanzi tutto dovremmo chiederci come mai i Romani stessi considerarono autentici Romani il campano Nevio, l'apulo Ennio, il reatino Varrone, l'arpinate Cicerone e poi perfino i transpadani Virgilio e Tito Livio, mentre a noi tocca subire questo barbarico snobismo che non sa trattenersi dall'arricciare il naso nell'apprendere che le vele di una nave romana vennero sciolte anche da qualche marinaio proveniente da Anzio, o da Terracina, o dalla Campania. E lo stesso ragionamento va esteso, nel periodo dell'Impero, ai marinai provenienti da qualsiasi parte del Mediterraneo, le cui sponde furono romanizzate senza alcuna preclusione, visto che ebbero un'origine non italiana perfino molti imperatori di Roma (fra quelli di prima grandezza: Traiano dalla Spagna, Settimio Severo dall'Africa e Diocleziano dalla Dalmazia). Dovremmo poi ricordarci che i comandanti delle flotte furono tutti Romani, e non risulta ch'essi abbiano mai delegato le decisioni di propria competenza; anzi, abbiamo perfino visto Lucullo, alla testa di una flotta interamente procuratagli dagli alleati, impartire non solo ordini tattici, ma anche ordini di manovra, all'espertissimo comandante rodio della nave rodia ov'era imbarcato. Infine, dobbiamo rammentare che le decisioni, a livello strategico, sulla gestione del potere marittimo risalivano necessariamente al massimo livello politico di Roma: ai consoli e, soprattutto, al Senato. Dobbiamo quindi concluderne che l'utilizzo del mare e del potere marittimo era indiscutibilmente soggetto ad una volontà esclusivamente romana; allo stesso modo, tutto romano era l'impulso per lo sviluppo dei traffici commerciali marittimi, tipicamente romano era il pragmatico sfruttamento di ogni possibilità di trasporto navale, assolutamente romana era l'inventiva e la concreta capacità realizzatrice di imponenti opere marittime (costruzione di grandiosi porti artificiali, scavo di canali navigabili, creazione di una vera e propria rete di fari sistemati sui punti più cospicui delle coste mediterranee ed oceaniche, impianto di parchi marini e di estesi complessi di vasche per l'allevamento dei pesci, ecc.), squisitamente romana era la voglia di godere della bellezza e delle piacevolezze del mare costruendosi le ville quanto più possibile vicine alla riva, lungo le coste delle regioni più amene o nell'incantata tranquillità delle isole. Se questa non è conoscenza, confidenza ed amore per il mare, non sapremmo di che altro potrebbe trattarsi. Detto questo, possiamo senz'altro adottare il parere espresso da Michel Reddé, che non esita a classificare quei pregiudizi come dei "clichés, dont la fausseté est éclatante" [95].

La nascita del potere marittimo di Roma, come abbiamo visto, non derivò da ambizioni egemoniche (palesi presso le maggiori monarchie ellenistiche, come Macedonia, Ponto, Siria ed Egitto) ma da esigenze primigenie di mera sopravvivenza: i Romani compresero molto presto che loro sicurezza dipendeva strettamente dalla possibilità di navigare, al fine di assicurare l'afflusso dei rifornimenti vitali e di mantenere il controllo delle coste e delle acque d'interesse. Il potere marittimo rappresentò quindi, per essi, una necessità, così come venne indicato, con efficacissima sintesi, dal celeberrimo "navigare necesse est" di Pompeo Magno. Per la sicurezza delle coste (quelle soggette alla propria sovranità e quelle delle popolazioni alleate) e della crescente flotta mercantile utilizzata, Roma provvide in un primo tempo ad estendere gradualmente il proprio controllo marittimo, con le navi da guerra di cui si era dotata, e poi a confrontarsi, con straordinaria determinazione, con la maggiore potenza marittima esistente nel Mediterraneo: Cartagine. Avendo in tal modo acquisito la supremazia navale, Roma poté superare vittoriosamente una ininterrotta serie di guerre (oltre alla immane II guerra Punica, vi sono tre guerre Illiriche, tre guerre Macedoniche, una guerra Siriaca, una Istrica e svariate in Spagna), che, pur se originate da ragioni eminentemente "difensive", la portarono, col determinante concorso delle sue forze marittime, ad allargare progressivamente la propria area d'influenza oltremare, fino ad interessare tutti i litorali bagnati dal Mediterraneo.

L'affermazione del potere marittimo di Roma, pertanto, non fu basata su poche fortunose vicissitudini, ma su una sequenza di scelte del tutto razionali e coerenti, come risulta con chiarezza perlomeno dai periodi sui quali ci è pervenuta una sufficiente copertura storiografica: "Le azioni di Roma, almeno dalla Prima Guerra Punica a quella Siriaca, dimostrano chiaramente la comprensione dell'importanza del potere marittimo e la persecuzione di un ben preciso indirizzo per ottenerlo in modo assoluto su tutto il Mediterraneo" [96]. Nei periodi meno documentati, le poche informazioni disponibili non ci danno l'evidenza di qualche concreta inversione di tendenza (che non troverebbe, peraltro, alcuna spiegazione plausibile), pur mostrandoci alcune transitorie situazioni di gravi scompensi scaturiti dalla crisi istituzionale che generò l'Impero. In ogni caso, la successione dei grandi eventi marittimi che hanno portato Roma al dominio dell'intero Mediterraneo lascia comprendere che, in occasione delle singole scelte di volta in volta operate, anche quando pressati da terrificanti emergenze interne, i Romani mantennero sempre ben presente la valenza strategica del potere marittimo e l'esigenza di cogliere tutte le occasioni favorevoli per consolidarlo. Vi sono peraltro certi severi critici moderni, imbevuti di proprie certezze marinare, che amano evidenziare nella gestione delle questioni navali romane ogni possibile sintomo di inesperienza ed incompetenza: ma se così fosse, occorrerebbe comunque spiegare come fecero i Romani, di ingenuità in ingenuità, di incoerenza in incoerenza, di errore in errore, a pervenire, dopo essersi confrontati per mare con tutte le maggiori potenze navali dell'epoca, alla più assoluta forma di dominio dei mari che sia mai stata concepita.

L'approccio romano ai problemi navali e marittimi va quindi studiato con umiltà e rispetto; così come è difficile che un marinaio non sappia riconoscere un altro marinaio, ci risulterebbe impossibile non attribuire ai Romani tutto il merito per gli straordinari risultati ch'essi seppero conseguire per mare. Dall'esame di quelle vicende, inoltre, emerge con assoluta evidenza la spiccata sensibilità dei Romani per le proprie esigenze marittime (parlando del porto di Ostia e di quelli viciniori, Cicerone disse ai Senatori: "quei porti che vi danno la possibilità di vivere e di respirare" [97]), e la più che convincente loro capacità di utilizzare lo strumento navale nell'intera gamma delle missioni possibili, secondo la logica perenne che regola la gestione del potere marittimo.

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Note:

[ 1] Flor. I, 1, 1-2; da "Floro - Epitome di Storia Romana", a cura di Eleonora Salomone Gaggero, Rusconi Libri, Milano, 1981.

[ 2] Michel Reddé, Mare Nostrum - Les infrastructures, le dispositif et l'histoire de la Marine Militaire sous l'Empire Romain, école Française de Rome, Roma, 1986.

[ 3] Domenico Carro, Classica (ovvero "Le cose della Flotta") - Storia della Marina di Roma - Testimonianze dall'antichità, Rivista Marittima, Roma, 1992-2003 (12 volumi).

[ 4] Domenico Carro, Maritima - La Marina di Roma repubblicana, Forum Editore, Roma, 1995.

[ 5] Cic., De rep., II, 5; da "Marco Tullio Cicerone, Dello Stato", a cura di Anna Resta Barrile, Zanichelli Editore, Bologna, 1970.

[ 6] Dionys. Hal., III, 44, 1-4; da "Dionisio di Alicarnasso - Storia di Roma arcaica (Le Antichità romane)", a cura di Floriana Cantarelli, Rusconi Libri, Milano, 1984.

[ 7] Polyb., III, 22-26; da "Polibio, Storie", a cura di Carla Schick, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1988.

[ 8] Antonio Flamigni, Il Potere Marittimo in Roma antica dalle origini alla guerra Siriaca, Rivista Marittima (Supplemento al n. 11, Novembre 1995), Roma, 1995.

[ 9] App., Samn., 7; da "Le Storie Romane di Appiano alessandrino, volgarizzate dall'Ab. Marco Mastrofini - Le Guerre Esterne", coi tipi di Francesco Sonzogno e Compagno, Milano, 1830 (2 volumi).

[10] Dionys. Hal., V, 26, 3-4 (op. cit.).

[11] Liv., II, 34; da "Tito Livio, Storia di Roma", testo latino e versione a cura di Carlo Vitali, Zanichelli Editore, Bologna, 1974-1971-1970-1980 (4 volumi; includono i Libri I-X).

[12] Olaf Höckmann, La navigazione nel mondo antico, Garzanti, Milano, 1988 (titolo originale: Antike Seefahrt; traduzione dal tedesco di Manlio Pisu).

[13] Liv., IV, 34 (op. cit.).

[14] Plut., Camil., 8; da "Plutarco, Vite Parallele", a cura di Carlo Carena, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974 (3 volumi).

[15] Liv., V, 54 (op. cit.).

[16] Liv., VII, 25-26 (op. cit.).

[17] Liv., VIII, 13-14 (op. cit.).

[18] Liv., IX, 30 (op. cit.).

[19] Plin., N.H., XVI, 8; da "Gaio Plinio Secondo - Storia naturale", Giulio Einaudi Editore, Torino, 1982-88 (6 volumi).

[20] Enrico Clausetti, Navi e simboli marittimi sulle monete dell'antica Roma, Supplemento della Rivista Marittima Dicembre 1932-XI, Ministero della Marina - Tipo-litografia dell'Ufficio di Gabinetto, Roma, 1932.

[21] Liv., IX, 38 (op. cit.).

[22] Theophr., H.P., V, 8; da "Teofrasto, La Storia delle piante", volgarizzata ed annotata da Filippo Ferri Mancini, Ermanno Loescher & C., Roma, 1900.

[23] Val. Max., I, 8, 2; da "Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili", a cura di Rino Faranda, TEA (su licenza UTET), Milano, 1988.

[24] Dio. C., I-XXXIV, fragm. 145; da "Istorie Romane di Dione Cassio Cocceiano", tradotte da Giovanni Viviani, dalla Tipografia de' Fratelli Sonzogno, Milano, 1823 (5 volumi).

[25] App., Samn., 7 (op. cit.).

[26] Iustin., XVIII, 2; da "Storie Filippiche di Giustino", tradotte dal Prof. Ab. Cav. Francesco Arnulf, precedute dagli argomenti dei libri di Pompeo Trogo, nel privil. Stabilimento Nazionale di G. Antonelli Editore, Venezia, 1856.

[27] Val. Max., III, 7, 10 (op. cit.).

[28] Liv., Per., 14-15; da "Storie - Libri VI-X - di Tito Livio", a cura di Luciano Perelli, U.T.E.T., Torino, 1979 (include le Periochae 11-20).

[29] Polyb., I, 10 (op. cit.).

[30] Amp., XLVI; da "Memoriale di Lucio Ampelio", con emendazioni, traduzione e note di Pietro Canal, dalla Tip. di Giuseppe Antonelli Ed., Venezia, 1841.

[31] Polyb., I, 20 (op. cit.).

[32] Diod., XXIII, 2; da "Diodoro Siculo - Biblioteca Storica, Libri XXI-XL", a cura di Giorgio Bejor, Rusconi Libri, Milano, 1988.

[33] Frontin., I, 4, 11; da "Giulio Frontino - Gli Stratagemmi", traduzione di Roberto Ponzio Vaglia, Casa Editrice Sonzogno, Milano, 1919.

[34] Polyb., I, 20 (op. cit.).

[35] Polyb., I, 21 (op. cit.).

[36] Polyb., I, 22 (op. cit.).

[37] Polyb., I, 23 (op. cit.).

[38] Eutr., II, 20; da "Eutropio - Compendio di Storia Romana", a cura di Michele Caroli, Rondinella e Loffredo Editori, Napoli, 1929.

[39] Polyb., I, 24 (op. cit.).

[40] Liv., Per., 17 (op. cit.).

[41] Sil., VI, 663-664; da "Silio Italico - Le Puniche", versione di Antonio Petrucci, Istituto Editoriale Italiano, La Santa (Milano), 1928-VI (2 volumi).

[42] Polyen., Strat., Caius; da "Gli Stratagemmi di Polieno tradotti da Lelio Carani", dalla Tipografia di Gio. Battista Sonzogno, Milano, 1821.

[43] Domenico Carro, La Corona navale, da "Notiziario della Marina", periodico mensile a carattere professionale, anno XLII, n.7, Roma, 1995.

[44] Polyb., I, 25.26 (op. cit.).

[45] J. H. Thiel, Studies on the history of Roman sea-power in republican times, North-Holland Publishing Company, Amsterdam, 1946.

[46] Polyb., I, 59 (op. cit.).

[47] Diod., XXIV, 11 (op. cit.).

[48] Polyb., I, 61 (op. cit.).

[49] Eutr., II, 27 (op. cit.).

[50] Flor., I, 18 (op. cit.).

[51] Polyb., I, 63 (op. cit.).

[52] Liv., XXI, 63; da "Tito Livio, Storia di Roma", testo latino e versione a cura di Guido Vitali, Zanichelli Editore, Bologna, 1985-1982-1985-1981 (4 volumi; includono i Libri XXI-XXX).

[53] Alfred T. Mahan, L'influenza del Potere Marittimo sulla Storia, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1994 (titolo originale: The influence of Sea Power upon History; traduzione dall'inglese di Antonio Flamigni).

[54] Liv., XXI, 49-50 (op. cit.).

[55] Augusto Vittorio Vecchj (Jack La Bolina), Storia generale della Marina Militare, seconda edizione riveduta, corretta ed accresciuta, Volume I, Tipografia di Raffaello Giusti, Livorno, 1895.

[56] Liv., XXVIII,4 (op. cit.).

[57] Alfred T. Mahan, L'influenza del Potere Marittimo sulla Storia (op. cit.).

[58] Coel. Ant., VI, fragm. 41; da "Veterum Historicorum Romanorum reliquiae", disposuit recensuit praefatus est Hermannus Peter, in Aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae, 1870 (2 volumi) (citazione in versione italiana).

[59] Liv., XXX, 43 (op. cit.).

[60] Liv., XXXI, 5-7; da "Tito Livio, Storia di Roma", testo latino e versione a cura di Carlo Vitali, Zanichelli Editore, Bologna, 1981-1986-1988-1986-1986 (5 volumi; includono i Libri XXXI-XL).

[61] Liv., XXXVI, 45 (op. cit.).

[62] Liv., XXXVII, 8 (op. cit.).

[63] Polyb., XXI, 11 (op. cit.).

[64] Liv., XXXVII, 31 (op. cit.).

[65] Liv., XL, 52 (op. cit.).

[66] App., Lib., 75; da "Le Storie Romane di Appiano alessandrino" (op. cit.).

[67] Flor., I, 31, 7 (op. cit.).

[68] Liv., Per., 49; da "Tito Livio - Storie, Libri XLI-XLV e Frammenti", a cura di Giovanni Pascucci, U.T.E.T., Torino, 1971 (include le Periochae 46-142).

[69] App., Lib., 114 (op. cit.).

[70] App., Lib., 121 (op. cit.).

[71] Strab., XVII, 3, 15; da "The Geography of Strabo", with an english translation by Horace Leonard Jones, Ph.D., LL.D., Vol. VI-VII-VIII, William Heinemann Ltd - G.P. Putnam's Sons, London-New York, 1929-1930-1932 (3 volumi).

[72] Plut., Cato, 27; da "Plutarco, Vite Parallele" (op. cit.).

[73] App., Lib., 135 (op. cit.).

[74] Strab., III, 5, 1; da "Strabone, Geografia - Iberia e Gallia, Libri III e IV", introduzione, traduzione e note di Francesco Trotta, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1996.

[75] Oros., V, 15, 6; da "Orosio - Le Storie contro i pagani", a cura di Adolf Lippold, Arnoldo Mondadori Editore, Fondazione Lorenzo Valla, 1976 (2 volumi).

[76] Sall., B.I., LXXVII; da "Caio Sallustio Crispo, La congiura di Catilina - La guerra Giugurtina - Orazioni e Lettere", testo latino e traduzione in italiano di Giuseppe Lipparini, Zanichelli Editore, Bologna, 1979.

[77] Gell., XVIII, 11; da "Aulo Gellio - Notti Attiche", traduzione e note di Luigi Rusca, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1992 (2 volumi).

[78] Plut., Mar., 15; da "Plutarco, Vite Parallele" (op. cit.).

[79] Strab., III, 1, 9; da "Strabone, Geografia - Iberia e Gallia" (op. cit.).

[80] Strab., III, 5, 11; da "Strabone, Geografia - Iberia e Gallia" (op. cit.).

[81] C.I.L., I, 2662, da "Remains of Old Latin", newly edited and translated by E. H. Warmington, M.A., F.R.Hist.S., in four volumes, IV - Archaic Inscriptions, William Heinemann Ltd. - Harvard University Press, London - Cambridge, Massachussets, 1953.

[82] Liv., Per., 75; da "Tito Livio - Storie, Libri XLI-XLV e Frammenti" (op. cit.).

[83] Sis., fragm., 38-39 e 105-107, da "Veterum Historicorum Romanorum reliquiae" (op. cit.).

[84] Memn., XV, 29, da "Fozio - Biblioteca", tradotta dal cavaliere Giuseppe Compagnoni e ridotta a più comodo uso degli studiosi, per Giovanni Silvestri, Milano, 1836 (2 volumi)

[85] Tac., Ann., IV, 56, da "Cornelio Tacito - Annali", testo latino, introduzione, versione e note di Anna Resta Barrile, Zanichelli Editore, Bologna, 1973-74 (3 volumi).

[86] C.I.L., I, 588, da "Remains of Old Latin" (op. cit.).

[87] Cic., De prov. cons., 12; da "Orazioni di Cicerone", versione di Luigi Filippi, Collezione Romana diretta da Ettore Romagnoli della Reale Accademia d'Italia, Villasanta (Milano), 1929-VIII.

[88] Plut., Pomp., 32; da "Plutarco, Vite Parallele" (op. cit.).

[89] Plin., N.H., VII, 26; da "Gaio Plinio Secondo - Storia naturale" (op. cit.).

[90] Michel Reddé, Mare Nostrum (op. cit.).

[91] Chester G. Starr, The Roman Imperial Navy 31 B.C. - A.D. 324, W. Heffer & Sons Ltd., Cambridge, 1960.

[92] Le pietre miliari di queste ricostruzioni sono costituite, in ordine cronologico, da due pubblicazioni di Ermanno Ferrero (L'ordinamento delle Armate romane, Fratelli Bocca, Roma-Torino-Firenze, 1878; Iscrizioni e ricerche nuove intorno all'ordinamento delle Armate dell'Impero di Roma, Ermanno Loescher, Torino, 1884) e dalle opere di Chester G. Starr (nota precedente) e di Michel Reddé (nota n. 2).

[93] Arist., 11-13; da "Elio Aristide - In Gloria di Roma", introduzione, traduzione e commento a cura di Luigia Achilleia Stella, Edizioni Roma, Roma, Anno XVIII (1940)

[94] Lionel Casson, Navi e marinai dell'antichità, Mursia, Milano, 1976 (titolo originale: The Ancient Mariners; traduzione dall'inglese di Clelia Boero Piga).

[95] Michel Reddé, Mare Nostrum (op. cit.).

[96] Antonio Flamigni, Il Potere Marittimo in Roma antica ... (op. cit.).

[97] Cic., De imp. Cn. Pomp., 11-18 (31-55); da "Le orazioni di M. Tullio Cicerone - Volume secondo", a cura di Giovanni Bellardi, U.T.E.T., Torino, 1981.

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