Università di Bologna - Dipartimento di Beni Culturali
Convegno "Il Porto e la Base Navale dell’Impero - Il Potere di Roma e il Mediterraneo"
Ravenna, Palazzo Strocchi, 4-6 maggio 2015

DECERES LIBURNICAE

Le colossali navi imperiali
della flotta di Ravenna [1]

di DOMENICO CARRO
SOMMARIO:


Note


Didascalie


Bibliografia
  1. Introduzione
  2. Le navi liburniche
  3. I cantieri navali di Ravenna
  4. Le grandi poliremi ellenistiche
  5. Le grandi navi da carico romane
  6. Le navi di Nemi
  7. La politica navale di Caligola
  8. Il subentro dello zio Claudio
  9. Il trionfo Britannico
  10. Conclusione
© 2015 - Proprietà letteraria (copyright) di DOMENICO CARRO.
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SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home

I. Introduzione

Fra le più suggestive stravaganze che Svetonio si è compiaciuto di includere nella biografia di Gaio Giulio Cesare Germanico – oggi più noto con il suo nomignolo infantile “Caligola” – spiccano le gigantesche navi di lusso a bordo delle quali il giovane imperatore ebbe occasione di navigare lungo le coste della Campania, banchettando spensieratamente fra danze e soavi melodie. Nella succinta notizia, racchiusa in sole trentatré parole [2], vi è una sommaria descrizione di questi bastimenti, definiti deceres Liburnicae, che avevano “le poppe ornate di gemme, le vele dai molti colori, un’abbondanza di terme, portici e triclini di vasta ampiezza, oltre ad una grande varietà di vigne ed alberi da frutta”. Non abbiamo purtroppo alcun’altra informazione specificamente riferita a questi eccezionali colossi costruiti per ordine dello stesso Gaio. È quindi comprensibile che tali navi vengano ricordate solo raramente, e comunque senza mai discostarsi dalla mera parafrasi della scarna notiziola suetoniana. Volendo tuttavia meglio comprendere di che tipo di navi si sia trattato, ci si imbatte fin dall’inizio nella difficoltà di interpretare il significato dell’espressione deceres Liburnicae, apparentemente caratterizzata da una stridente contraddizione di termini. Le deceri o deceremi erano infatti delle mastodontiche poliremi, mentre quelle che i Romani chiamavano liburne o liburniche erano unità sottili, leggere e veloci. Non essendovi motivo di supporre che Svetonio abbia deliberatamente scelto di ricorrere ad un ossimoro, e dando per scontato che la parola deceris abbia sempre avuto un’accezione univoca, i dubbi debbono necessariamente concentrarsi sul significato da attribuire, in questo particolare caso, al termine liburnica [3].

Secondo una delle interpretazioni più diffuse, il sostantivo liburnica potrebbe essere stato usato quale sinonimo di nave da guerra. In effetti con il trascorrere dei secoli le denominazioni dei tipi di navi hanno progressivamente mutato il proprio significato originario [4], tanto che nel tardo impero vennero chiamate liburne anche le unità maggiori, fino al livello delle quadriremi e delle quinqueremi [5]. È tuttavia escluso che tale fenomeno si sia verificato nel periodo dell’alto impero, come si può agevolmente vedere sia dalle fonti letterarie [6] che da quelle epigrafiche [7]. D’altronde proprio Svetonio, oltre a parlarci delle deceres Liburnicae, in tutte le sue opere usa la parola liburnica solo altre due volte, sempre per indicare lo specifico tipo di unità leggera e veloce ideata dai Liburni ed adottata nella flotta romana [8].

Vi è anche stato chi ha supposto che liburnicae indicasse solo la presenza di un duplice livello di remi [9], lasciando alla parola deceres la normale funzione di specificare la tipologia di impiego dei rematori. Sarebbe quindi equivalso a dire che si trattava di “deceremi biremi”, con una precisazione del tutto inusuale e, a prima vista, più oscura che chiarificatrice [10].

Rimane, in definitiva, solo la più logica possibilità che Liburnicae sia un aggettivo aggiunto al sostantivo deceres per indicare che quelle navi erano state realizzate secondo la tecnica di costruzione liburnica. Per cercare di far luce in tale direzione, occorre verificare come si collocarono le deceremi di Caligola nel contesto navale, tecnologico e politico della loro epoca. A tal fine, esamineremo in sequenza: le esperienze navali liburniche e la loro influenza sui cantieri navali dell’alto Adriatico, le caratteristiche delle maggiori costruzioni navali allora conosciute, la politica navale nel breve principato di Caligola e negli anni immediatamente successivi.

SOMMARIO

II. Le navi liburniche

Pur avendo lasciato il proprio nome alla sola breve riviera che conduce alla città di Fiume [11], l’antichissimo popolo dei Liburni [12] si estese in epoca romana dal Carnaro fino al fiume Cherca [13] (che sfocia all’altezza di Scardona e Sebenico), ovvero su tutto il frastagliato lato balcanico dell’alto Adriatico, a nord del parallelo di Ancona. Dotati di una spiccata abilità marinara – acuita dalle necessità legate alla sofferta conformazione delle proprie coste – i Liburni mantennero per molti secoli un’assidua presenza navale nelle acque dell’Adriatico [14], stabilendo relazioni commerciali ed anche numerosi insediamenti lungo il versante orientale della nostra Penisola fino al canale d’Otranto [15]. Degli scambi più diretti ed intensi debbono essersi verificati, come vedremo, con la più vicina fascia lagunare ai due lati del delta del Po, grazie alla presenza di una lunga serie di ancoraggi protetti [16], ed essendo forse anche agevolati da una certa affinità linguistica con i Veneti [17].

Per le esigenze delle loro navigazioni, i Liburni ebbero una particolare cura delle proprie costruzioni navali, che si distinsero dalle altre per alcune soluzioni del tutto originali. Nel merito va tenuto presente che le navi dell’antichità vennero inizialmente costruite unendo le tavole del fasciame con la cosiddetta “cucitura” [18], tecnica successivamente abbandonata a favore della giunzione con biette e cavicchi [19], il raffinato incastro [20] che rese possibile anche la realizzazione di scafi di grandi dimensioni. Nel secolo di Augusto, pertanto, doveva suscitare un certo stupore la perdurante sopravvivenza delle seriliae, le tipiche navi “cucite” dei Liburni di cui scrissero Varrone e Verrio Flacco [21]. Ai nostri fini interessa rimarcare che delle navi di questo tipo – del tutto scomparse nell’intero Mediterraneo – continuarono ad essere costruite ed utilizzate in epoca imperiale, non solo sulle coste liburniche ed istriane [22], ma anche sulle sponde lagunari del delta del Po, laddove l’ambiente protetto rendeva idonea la tecnica della cucitura, più semplice ed economica [23]. In ogni caso, l’unicità del fenomeno della sopravvivenza di tale tecnica, concentrata esclusivamente nell’alto Adriatico, è un chiaro indizio della sensibile influenza della cultura marinara dei Liburni sui carpentieri navali dell’opposto litorale italico.

Nel campo del naviglio militare, l’abilità costruttiva dei cantieri dei Liburni ebbe notoriamente la sua più ammirata espressione nella liburna (o liburnica) [24], un tipo di nave che i Romani iniziarono ad apprezzare all’epoca di Pompeo e di Cesare, quando la Liburnia faceva già parte della provincia romana dell’Illirico. Fu tuttavia per merito di Marco Agrippa che le liburne, catturate in gran numero durante la guerra Dalmatica ed immesse nella flotta romana per la guerra Aziaca, poterono contribuire alla vittoria navale che cambiò la storia. Esse furono anche esaltate dai poeti – con qualche esagerazione di maniera – quali artefici di quel successo [25]. In realtà nelle maggiori flotte imperiali istituite da Augusto, le liburne soppiantarono solo le biremi (di cui rimase comunque qualche raro esemplare), senza tuttavia nulla togliere all’importanza delle unità maggiori. Esse ebbero peraltro un ruolo più visibile nelle flotte periferiche, prevalentemente costituite da unità leggere [26].

Purtroppo non abbiamo elementi per capire quali fossero esattamente le superiori peculiarità costruttive che convinsero i Romani ad adottare quelle navi così com’erano, non come biremi più avanzate, ma come nuovo tipo a sé stante, contraddistinto per sempre dal nome dei Liburni. Possiamo solo arguire che, pur adottando la normale tecnica delle biette e cavicchi [27], gli scafi fossero progettati in modo tale da assicurare alla nave una leggerezza, una velocità ed una manovrabilità di gran lunga superiori alle precedenti unità delle stesse dimensioni [28].

SOMMARIO

III. I cantieri navali di Ravenna


Figura 1: faber navalis Longidieno

In epoca antica, la felice posizione di Ravenna al centro di un’ampia laguna comunicante con il mare [29], in una situazione alquanto simile a quella che conosciamo per Venezia, venne apprezzata da Cesare durante ed allo scadere del suo lungo proconsolato in Gallia [30]. Fu poi suo figlio adottivo a sfruttare in grande stile le potenzialità portuali e cantieristiche di quel sito [31], per costruirvi gran parte della flotta necessaria all’avvio della guerra Sicula [32]. Ottaviano non sarebbe ricorso a Ravenna, in posizione talmente decentrata rispetto alla primaria aerea di operazioni nel basso Tirreno, se le relative capacità cantieristiche non fossero già comprovate. È peraltro possibile che fra le navi ch’egli fece costruire a Ravenna nell’inverno 39-38 a.C. vi fossero anche delle liburne, visto che due anni dopo egli si imbarcò su una di quelle unità quando subì un imprevisto attacco navale nelle acque di Taormina [33]. Quando egli tornò nell’Adriatico per la guerra Dalmatica, la sua flotta impegnata nella cattura delle navi dei Liburni che si erano dati alla pirateria deve aver nuovamente utilizzato Ravenna come base logistica [34].

La successiva scelta di tale città come sede di una delle due maggiori flotte permanenti istituite da Ottaviano Augusto dopo la vittoria aziaca risultò coerente con le esperienze precedentemente maturate e comportò l’esecuzione di grandi lavori per rendere pienamente efficiente la nuova base navale [35]. Il potenziamento dei cantieri navali fu una conseguente necessità: esso venne anche favorito dall’onda di dinamismo e di benessere che investì l’intera regione alto-adriatica all’epoca dei primi Cesari [36], nonché dalla crescente presenza a Ravenna di maestranze specializzate. Queste ultime furono anche alimentate dall’afflusso di operai, marinai e classiari provenienti dall’altra sponda del mare e recanti con sé anche le abilità, le competenze e le tradizioni navali dei Liburni [37]. Le fonti epigrafiche, ancorché riferibili soprattutto al II e III secolo, confermano tali dati ed evidenziano la tendenza dei membri degli equipaggi a rimanere a Ravenna anche dopo il congedo, divenendone quindi cittadini a tutti gli effetti [38]. A margine dobbiamo osservare che, non essendo rimasta traccia delle analoghe iscrizioni del I secolo [39], non potremmo attenderci di trovare epigrafi di membri degli equipaggi delle deceres Liburnicae di Caligola.


Figura 2: navalia di Ravenna

Alcuni ulteriori dati sui cantieri navali di Ravenna sono desumibili dalle fonti iconografiche: in particolare, l’esistenza di una fiorente attività cantieristica civile (rappresentata dal faber navalis Longidieno) per il naviglio mercantile e la capacità di realizzare anche navi di grandi dimensioni, come le onerarie maggiori e probabilmente anche le robuste lapidariae [40].

Dall’iconografia abbiamo anche una possibile vista dei navalia della base navale di Classe: essi sono rappresentati sullo sfondo della scena della colonna Traiana relativa alla partenza della flotta per la seconda guerra Dacica [41]. Quel bassorilievo è stato peraltro giudicato come la più sicura illustrazione antica di navalia romani [42].

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IV. Le grandi poliremi ellenistiche

Per poter parlare di poliremi occorre innanzi tutto aver ben chiaro che di realmente chiaro su tale argomento non possediamo nulla [43]. Gli antichi avevano dinnanzi agli occhi qualcosa di talmente evidente, che non ritennero utile descrivere le ovvietà; ma quello spettacolo ci è purtroppo precluso. Sull’iconografia non possiamo mettere la mano sul fuoco [44], mentre le varie ipotesi moderne continuano a destare alterne perplessità [45], non configurando quella limpida ed immediata evidenza che sembra aver caratterizzato l’antica concezione del remeggio [46]. Ai nostri fini sarà allora sufficiente prendere la numerazione che contraddistingue i vari tipi di navi [47] dell’antichità greco-romana come un non meglio definibile indice della loro potenza remiera e, di conseguenza, della loro grandezza. Fino a prova contraria parrebbe comunque logico continuare ad accogliere il verosimile limite di due o al massimo tre livelli di scalmiere [48] per tutte le poliremi superiori alle triremi [49].

La corsa al gigantismo delle poliremi iniziò, com’è noto, con la rivalità fra gli ambiziosi ex-luogotenenti di Alessandro Magno che si impossessarono delle più appetibili regioni del suo effimero impero. Iniziò Tolomeo Sotere, cui venne attribuita la realizzazione di navi da XII [50], dopo aver combattuto contro Antigono Monoftalmo e suo figlio Demetrio Poliorcete, che costruirono invece navi da XV e da XVI [51]. Una nave altrettanto potente potrebbe poi essere stata efficacemente utilizzata dal figlio di quest’ultimo, Antigono Gonata [52]. I limiti massimi furono raggiunti da Tolomeo II Filadelfo (il costruttore della Biblioteca, del Museo e del Faro di Alessandria), che si dotò di una flotta imponente, le cui unità maggiori furono due XXX [53], e da Tolomeo IV Filopatore che cercò di compensare la propria inconsistenza con due colossi navali: un’unità marittima da XL (tessaracontera) [54] ed un mega-panfilo fluviale (thalamego) [55]. Di tutte le gigantesche poliremi ellenistiche, ci sono pervenute delle specifiche descrizioni solo per queste ultime due, nonché per quella che nel frattempo era stata costruita da Gerone II avvalendosi del genio di Archimede (la Siracusia) [56]: create per smania di ostentazione di grandeur, all’atto pratico si dimostrarono tutte inutilizzabili [57].

Occorre anche osservare che conosciamo queste sconcertanti super-poliremi attraverso pochissime fonti antiche ed in assenza di altri riscontri. Ad esempio, le monete emesse dal primo Tolomeo e dal suo avversario Demetrio Poliorcete mostrano una prora di nave sostanzialmente simile a quella della quinquereme che comparve qualche decennio dopo sulla prima monetazione romana [58]: solo le navi combattenti vere e proprie [59] furono dunque considerate idonee e credibili quale emblema del potere marittimo.

Ciò nonostante, i regni ellenistici conservarono il gusto delle grandi poliremi allestite in modo sfarzoso [60], come si vide con le regie unità (da XVI) dei sovrani di Macedonia – Filippo V [61] e Perseo [62] – e con le navi di Cleopatra VII: quelle utilizzate come panfili regali [63] e quelle armate insieme ad Antonio per tentare di sbarcare in Italia. Le dimensioni delle maggiori navi (deceremi [64]) di questa flotta, fermata e sconfitta ad Azio, sono palesate dalle impronte lasciate dai loro rostri sul basamento del monumento eretto da Ottaviano a Nicopoli [65].

Dopo la battaglia navale di Azio, le grandi navi catturate in quelle acque vennero conservate per qualche tempo nella flotta imperiale creata a Forum Iulii (Fréjus) [66], mentre nelle nuove flotte permanenti di Miseno e Ravenna rimase tutta la gamma delle navi vittoriose, dalle quinqueremi [67] alle liburne, oltre ad una esareme come nave ammiraglia [68]. Delle gigantesche poliremi ellenistiche sopravvisse solo il ricordo, con un’ammirazione condizionata dalle riserve sulla loro valenza bellica e sulle loro effettive qualità nautiche [69].

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V. Le grandi navi da carico romane

Anche se la marina militare romana non ebbe mai la necessità di mettere in cantiere delle poliremi di rango superiore alla tipologia delle proprie normali unità combattenti, dimostratesi pienamente rispondenti per tutte le esigenze operative, la flotta mercantile dovette invece dotarsi di navi da carico di maggiori dimensioni, a partire dal secolo di Augusto, per fronteggiare le aumentate esigenze di trasporto di ogni genere di beni in direzione di Roma. Fra le storiche necessità vitali dell’Urbe permaneva sempre prioritaria quella dei rifornimenti di grano, che fin dall’inizio dell’epoca imperiale giungevano soprattutto dall’Egitto. Il servizio di trasporto sulla rotta da Alessandria verso l’Italia era principalmente assolto da una flotta di imponenti navi granarie, come quella Iside di cui ci è pervenuta un’entusiastica descrizione [70].

Altre unità dotate di una rilevante capacità di carico erano le navi lapidarie [71], dalle strutture rinforzate per consentire l’imbarco di massi di marmo o granito, colonne, sculture ed altro materiale edilizio o decorativo estremamente pesante. Una lapidaria molto particolare fu quella, di anomale dimensioni, che Caligola fece appositamente costruire per trasportare a Roma la colossale statua di Giove Olimpio [72].

Ancor più grandi ed inconsuete furono le navi porta-obelischi, progettate di volta in volta per lo specifico carico da imbarcare. Il primo ad utilizzarle fu Augusto, che volle abbellire Roma con quattro grandi obelischi (oltre a molti altri più piccoli), il maggiore dei quali venne trasportato da una nave eccezionale. Lo stesso imperatore decise pertanto lasciarla a Pozzuoli, affinché essa fosse permanentemente esposta all’ammirazione di tutti [73].

Poco meno di mezzo secolo dopo, Caligola fece costruire una nave ancor più imponente per trasportare da Alessandria a Roma il grande obelisco (ed il suo possente basamento in granito) destinato al nuovo circo nel campo Vaticano. Questo gigantesco bastimento venne giudicato da Plinio il Vecchio il “più mirabile” fra quanti si fossero mai visti sui mari. Il giovane imperatore volle dunque seguire l’esempio di suo bisnonno: ordinò che la sua nave venisse conservata a Pozzuoli [74], verosimilmente nello stesso sito lasciato libero dalla precedente porta-obelischi, che nel frattempo era stata distrutta da un incendio. In base ai dati forniti dalle fonti antiche e tenuto conto delle dimensioni dell’obelisco Vaticano e del suo piedistallo, è presumibile che la nave costruita da Caligola fosse dello stesso ordine di grandezza delle maggiori super-poliremi ellenistiche, avendo per contro una effettiva utilità.

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VI. Le navi di Nemi

Nel valutare le predette costruzioni navali abbiamo dovuto necessariamente affidarci ai pochi dati ricavabili dalle fonti antiche e da qualche correlabile evidenza archeologica [75]. Con le navi di Nemi abbiamo invece avuto la fortuna di poter osservare direttamente, misurare ed analizzare gli scafi di due gigantesche costruzioni navali risalenti al principato di Gaio Caligola. Fin da quando esse vennero messe a secco, negli anni Trenta, le due navi hanno evidenziato le numerose loro affinità con le maggiori poliremi ellenistiche, non per il remeggio ma per le dimensioni e per molte caratteristiche dell’architettura e dell’allestimento. In particolare, esse sono risultate paragonabili soprattutto con la Siracusia di Gerone II [76], ma il loro esame ha anche consentito di attribuire una più elevata credibilità all’antica descrizione delle due super-poliremi di Tolomeo IV (fermi restando i loro limiti) e di mettere un po’ meglio a fuoco i loro possibili dati tecnici [77].

Circa le caratteristiche peculiari delle due navi lacustri di Caligola, è stata accertata un’accuratissima scelta dei legni più adatti alle sollecitazioni cui venivano sottoposte le varie componenti (senza risparmi e con un’oculata selezione dei tronchi e dei rami naturalmente dotati della necessaria curvatura e dell’appropriato orientamento delle fibre) ed è stato possibile individuare la disposizione, a grandi linee, delle sovrastrutture marmoree [78].


Figura 3: bronzi delle navi di Nemi

Per quanto concerne il complessivo apparato decorativo, sappiamo che nei secoli precedenti all’emersione delle navi esso era stato immaginato di una sontuosità sfrenata e ridondante, sulla scia della passione alessandrina per l’insolente ostentazione della ricchezza, come risulta dalle descrizioni delle poliremi regali di Tolomeo IV e Cleopatra. Gli elementi acquisiti sulle navi di Nemi e l’osservazione dei loro incantevoli bronzi ci mostrano un ben diverso stile: nonostante la presenza di sovrastrutture maestose, tutto ci parla di un insieme dallo splendore elegante ed estremamente raffinato [79].

Costruite su disegno di un faber navalis romano, probabilmente ostiense [80], le due navi di Caligola non vanno considerate una banale scimmiottatura orientaleggiante, ma una reale innovazione nell’ambito navale, da parte del giovane principe, per l’architettura, le tecnologie ed il design [81].

Sebbene la loro costruzione debba aver richiesto un lavoro di almeno un anno e mezzo o poco più (in un periodo grosso modo collocabile tra la seconda metà del 37 e l'inizio del 39 d.C.), con forte impatto nell’area – molto nota – del lago di Nemi, le fonti antiche di cui disponiamo non hanno riportato alcun cenno sull’esistenza di quelle due navi colossali [82]. Essendoci per contro pervenuta la notizia relativa alle deceres Liburnicae, dovremmo dedurne che queste ultime offrissero uno spettacolo ben più imponente ed ammirevole agli occhi dei contemporanei che ebbero occasione di vederle.

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VII. La politica navale di Caligola

Abbiamo dunque visto quanta cura abbia posto Caligola nella costruzione di unità navali di eccezionali dimensioni, sia per il trasporto marittimo che per le specifiche esigenze lacustri legate al culto di Diana presso il santuario di Nemi. Tali realizzazioni non furono il frutto di scelte estemporanee, ma solo alcuni degli aspetti visibili di una politica navale di indubbio spessore [83], perseguita da un imperatore che aveva una strettissima familiarità con le navi e con il mare [84].


Figura 4: principali azioni avviate

In effetti tale politica, resa evidente da un articolato programma di costruzioni navali e da dimostrazioni memorabili come quella del lunghissimo ponte di navi da Pozzuoli a Baia [85], fu essenzialmente finalizzata al consolidamento del dominio di Roma a nord e nel Mediterraneo, sfruttando soprattutto le leve del prestigio [86] e della dissuasione [87].

In Germania, con l’utilizzo della flotta [88] e di porti sul Mare del Nord [89], Caligola diede l’avvio alla ripresa dell’iniziativa per la progressiva romanizzazione della Germania transrenana, recuperando la fedeltà dei Frisoni per poi affrontare i Cauci, più a levante [90].

Nei confronti della Britannia egli mise in atto un complesso di attività navali e di predisposizioni – cantieristiche, operative e logistiche [91] – intese a rafforzarvi il partito filoromano ed a far maturare le condizioni per una incruenta successiva invasione dell’isola. Per i primi successi conseguiti nella sua spedizione a nord, il giovane imperatore fu oggetto di diversi onori [92] denotanti un apprezzamento da parte dei contemporanei ben diverso dai pregiudizi che resero artificiosamente farseschi i successivi racconti storici.

Nel Mediterraneo, Caligola dovette mobilitare parte delle flotte di Miseno e Ravenna incaricate di sbarcare nei porti della Mauretania, appena annessa, delle consistenti forze prelevate dalla Spagna e dalla Siria per contrastare la rivolta di Edemone [93]. Nel frattempo egli stava organizzando il proprio viaggio ufficiale ad Alessandria, con partenza prevista nel gennaio del 41, su di un itinerario alquanto simile a quello del suo viaggio infantile [94], con le navi della classis Ravennas [95].


Figura 5: resti del faro di Caligola

È proprio in questo contesto che vanno collocate le deceres Liburnicae, ovvero le più importanti fra le molte grandi costruzioni navali volute da Caligola. Viste sotto questa ottica, le deceremi non ci appaiono più come inesplicabili capricci [96] del principe, né come banali mega-panfili [97], e nemmeno come meri strumenti di auto-celebrazione “divinizzante” ad imitazione dei Tolomei [98]. Nel viaggio di Caligola in Oriente esse potevano evidentemente conseguire un risultato ben più serio ed importante: quello di fornire alle popolazioni ellenizzate del Mediterraneo orientale l’evidenza del potere dell’imperatore cui competevano le decisioni supreme nel prendersi cura dei loro destini. In quelle regioni, infatti, permaneva ancora precaria l’accettazione della signoria di un semplice cittadino romano, ancorché principe del Senato, ma risultava indiscutibile il potere sovrano di chi riusciva a mostrare con ogni evidenza la propria regalità [99].

Pochi giorni prima della partenza, tuttavia, il nostro giovane ed ardente Gaio Caligola risultava ancora a bordo di una quinquereme in navigazione nel Tirreno, ove evidentemente non c’era più alcuna decereme [100]. Egli si stava trasferendo con altre unità della flotta da Astura ad Anzio, per poi far ritorno nell’Urbe, ove l’attendevano i suoi carnefici.

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VIII. Il subentro dello zio Claudio

Fu così che Claudio, prudenzialmente emarginato dalla vita pubblica nei suoi primi 46 anni per volontà di Augusto [101] e rivitalizzato nei tre anni, dieci mesi e otto giorni del principato del nipote Gaio [102], pervenne a sorpresa – mirabili casu [103] – al soglio imperiale. Sebbene avesse respinto la proposta senatoria di damnatio memoriae per Caligola, il suo atteggiamento nei confronti del defunto nipote rimase formalmente equivoco e sostanzialmente ostile, ammesso ch’egli abbia davvero deciso di farne occultamente sparire ogni traccia e di annullarne tutti gli atti [104]. Pare comunque emblematica la sua scelta di chiamare Claudia l’acqua del grandioso acquedotto che il suo predecessore aveva costruito e che egli stesso completò, apponendo il proprio nome sulla vistosa iscrizione di Porta Maggiore ove precisò addirittura di averlo finanziato con le proprie risorse [105].

Così come sarebbe stato insopportabile, agli occhi di Claudio, lasciare che quella meritoria opera in bella vista ricordasse a tutti il nome di Gaio Caligola, altrettanto imbarazzante doveva apparire la gigantesca porta-obelischi lasciata in esposizione a Pozzuoli. Dopo qualche anno la nave venne caricata con pesanti cassoni di cemento ed inviata davanti all’imboccatura del nuovo ed amplissimo porto marittimo di Roma fatto scavare dallo stesso Claudio a nord di Ostia: lì venne affondata per costituire il nucleo dell’isola artificiale sulla quale venne poi eretto il celebre faro [106].

Questa propensione di Claudio a sfruttare utilitaristicamente le opere del nipote per la propria gloria risultò evidente anche nel campo della strategia, quando giunsero a maturazione le azioni avviate da Caligola sui vari fronti.

In Mauretania, la vittoria arrise alle armi romane poco prima dell’assassinio di Gaio. Questo piccolo dettaglio cronologico non impedì a Claudio di accettare gli onori trionfali per quell’impresa compiuta sotto il principato del suo predecessore [107].

In Germania, l'epilogo vittorioso avvenne pochi mesi dopo la morte di Gaio, che aveva personalmente avviato quelle operazioni e ne aveva affidato la condotta a due uomini di valore: Gabinio vinse i Cauci e recuperò anche l'ultima delle aquile delle legioni di Varo rimaste in mani germaniche, mentre Galba sottomise i Catti. Questo bastò a Claudio per farsi attribuire la sua prima acclamazione ad imperator[108] .

In Britannia, il complesso di iniziative dissuasive ed organizzative intraprese da Gaio per far leva sul locale partito filoromano e predisporre l’invasione dell’isola diedero gli attesi risultati l’anno dopo: il re britanno Verica giunse a Roma e richiese la protezione e l’intervento dei Romani [109]. A quel punto la flotta era già pronta e l’esercito era celermente recuperabile dalla pacificata Germania, ov’erano anche presenti le due nuove legioni create da Caligola.


Figura 4: andata e ritorno dalla Britannia

Il progettato viaggio imperiale ad Alessandria era ormai sfumato, ma Claudio stava comunque tenendo d’occhio le navi che per quell’esigenza erano state fatte approntare dal nipote a Ravenna. Nel frattempo egli aveva anche predisposto il proprio personale intervento in Britannia, dando precise istruzioni [110] al comandante in capo dell’operazione, Aulo Plauzio.

In linea con i più ottimistici obiettivi delle misure adottate da Caligola, la campagna britannica si risolse senza affanni ed in brevissimo tempo [111]. Lo stesso Claudio rimase nell’isola solo sedici giorni, durante i quali riuscì comunque a collezionare un gran numero di acclamazioni ad imperator, sebbene non fosse mai stato lecito ricevere questo titolo più di una volta in una stessa guerra [112]. Per la vittoria in Britannia, moltissimi nuovi onori gli furono decretati dal Senato [113] ed altri se li prese da sé, come quella corona navale ch’egli si volle attribuire per aver varcato l’Oceano [114]. Gli allori navali erano peraltro destinati ad essere idealmente rinverditi, otto anni dopo il trionfo, dal grande spettacolo di naumachia organizzato sul lago Fucino [115].

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IX. Il trionfo Britannico


Figura 7: la Porta Aurea

In questa sede risulta particolarmente interessante quanto Claudio fece nel suo percorso di ritorno dalla Britannia, impiegandovi un tempo alquanto lungo, visto che il suo rientro a Roma avvenne dopo un’assenza di sei mesi [116]. Sebbene il percorso esatto ch’egli seguì non sia stato riferito dalle fonti antiche, le ipotesi più attendibili delineano una breve permanenza in Gallia – con sosta a Lione, sua città natale, e forse una visita alle memorie paterne [117] – seguita da una “marcia trionfale” attraverso varie città dell’Italia settentrionale in direzione di Ravenna, ove l’imperatore potrebbe essere giunto per via fluviale, per poi sostarvi nei primi mesi del 44 [118].


Figura 8: personaggi della famiglia imperiale

Il soggiorno di Claudio a Ravenna ha lasciato due testimonianze emblematiche: la Porta Aurea – ingresso monumentale della città a breve distanza dal porto – costruita un paio di anni prima ma completata con motivi trionfali in occasione dell’arrivo dell’imperatore, cui era dedicata [119], ed i pregevoli rilievi scultorei provenienti da un altare – forse copia dell’ara gentis Iuliae sul Campidoglio – ed intesi ad esaltare la gloria della famiglia imperiale ed i tenui legami fra il divo Augusto ed il principe in carica [120]. La sola esplicita testimonianza scritta del passaggio di Claudio a Ravenna proviene tuttavia dal noto passo di Plinio il Vecchio che parla del porto Vatreno (alla foce del Po prossima a Ravenna), da cui “Claudio, trionfante sulla Britannia, entrò nell’Adriatico su di una nave gigantesca come un vero e proprio palazzo” [121]. Anche se la presenza della nave nel predetto porto [122], collegato a Ravenna dalla fossa Augusta, sembra voler indicare la sua provenienza da una navigazione fluviale [123], Plinio evoca l’immagine di una successiva navigazione marittima svolta al largo [124], nel clima “trionfale”: un evento da intendersi quindi come un festoso e solenne incontro in mare – sul genere di una rivista navale – con le altre navi della flotta Ravennate [125].

Siamo dunque infine giunti a questa atipica e stupefacente “nave-palazzo”, cui viene attribuita un’origine ravennate [126] ed in cui, pur in assenza di ogni altra informazione, parrebbe difficile non riconoscere l’inconfondibile paternità del giovane Gaio Caligola, le cui deceres Liburnicae dovevano logicamente trovarsi ancora lì. Queste navi ebbero quindi un ruolo non trascurabile nell’indurre Claudio all’anomala deviazione [127] fino a Ravenna prima di rientrare a Roma. Irresistibile dovette infatti apparire, ai suoi occhi, la prospettiva di sfruttare per la propria gloria anche le fascinose deceremi del nipote, prima di abbandonarle all’oblio [128], forse adagiate su qualche fondale come accadde alla porta-obelischi ed alle navi di Nemi.

SOMMARIO

X. Conclusione

Com’è avvenuto per tutti i risultati positivi conseguiti da Gaio Caligola, anche le pur notevoli sue deceres Liburnicae sono state ignorate da pressoché tutte le fonti antiche, pregiudizialmente ostili al giovane e spregiudicato imperatore. Ciò nonostante, dovendosi ragionevolmente ravvedere nella gigantesca nave utilizzata da Claudio nelle acque di Ravenna una delle deceremi del nipote [129], e correlando queste due esili tracce [130] con tutti gli altri aspetti fin qui esaminati, possiamo pervenire alla seguente ricostruzione a grandi linee.

Messe in cantiere non più tardi dell’autunno 38 d.C. [131], probabilmente sugli scali della base navale della classis Ravennas, le deceremi di Caligola furono realizzate con la tecnologia liburnica, di cui a Ravenna vi era una consolidata esperienza, sia fra i fabri navales, sia fra i carpentieri e gli operai specializzati, molti dei quali provenienti dalle famiglie dei classiari originari dalla Dalmazia. Si trattava verosimilmente di due unità gemelle, anche se una sola era destinata ad imbarcare l’imperatore, mentre l’altra doveva avere funzioni di riserva e di supporto alla prima [132]. Esse erano il frutto di un progetto originale tutto romano [133], inteso a realizzare delle grandi poliremi dotate di buone qualità nautiche – tenuta al mare, velocità e manovrabilità – mediante l’oculato adattamento dei criteri di costruzione delle ben più piccole liburne. Si trattava di una rielaborazione delle esperienze altrui, con quel tipico pragmatismo romano che, nel campo della cantieristica navale, aveva già consentito delle felicissime innovazioni, come ad esempio le quinqueremi veloci delle Egadi [134] e le actuariae “da sbarco” di Cesare [135].

Le nuove deceremi romane avevano uno scafo di foggia militare [136], ma delle sovrastrutture appropriate alla loro funzione di rappresentanza, più da navi di bandiera [137] dell’imperatore che non da fatui mega-panfili di piacere. La loro funzione avrebbe dovuto trovare il primo e più importante impegno nel progettato viaggio ad Alessandria.


Figura 9: attività delle navi pretorie di Gaio

Le navi devono essere state approntate entro la primavera del 40, venendo quindi trasferite nel Tirreno, probabilmente per completare il loro allestimento a Miseno sotto la supervisione di Gaio, che amava curare personalmente l’estetica delle strutture di cui disponeva ed ogni particolare relativo alle decorazioni interne ed all’arredo, come riferito da Filone di Alessandria che lo vide all’opera [138]. Da quanto conosciamo delle navi di Nemi, possiamo essere certi che, anche – ed a maggior ragione [139] – per le deceremi, il risultato fu tale da colpire di stupore ed ammirazione i contemporanei che ebbero occasione di vederle, affascinati tanto dalla loro maestosa imponenza, quanto dal loro stile elegante e raffinato.

La loro mole doveva essere pressoché equivalente a quella della Siracusia di Gerone II, la grande polireme che, a sua volta, presentava molte analogie con la prima nave di Nemi [140]. A differenza delle due navi lacustri di Caligola, che sostenevano delle pesanti costruzioni in muratura con marmi e colonne alte fino a cinque metri, le deceremi dovevano avere sovrastrutture più leggere ed idonee a sopportare le brusche ed ampie sollecitazioni del moto ondoso del mare, pur presentando l’aspetto di un palazzo imperiale, con portici, triclini, terme e giardini pensili [141]. Particolare impressione dovevano suscitare le dimensioni degli alberi della velatura (come accadde per la coeva porta-obelischi) ed il grande aplustre scintillante di gemme [142].

Dopo aver trascorso l’estate nelle acque della Campania, imbarcando anche il principe per alcune navigazioni di prova e di piacere [143], le deceres Liburnicae tornarono in autunno nell’alto Adriatico, per predisporsi, unitamente alle unità di scorta, al viaggio imperiale in Oriente. Nel suo ultimo inverno, pertanto, Gaio effettuò le proprie navigazioni nel Tirreno a bordo di una quinquereme [144]. Le sue splendide deceremi ebbero infine un’ultima occasione di visibilità grazie alla navigazione effettuata al largo di Ravenna da Claudio, uno studioso caparbio ed erudito, che da imperatore lasciò trasparire una certa tendenza alla ricerca compulsiva di onori e di rivalsa [145].

Questa è dunque la ricostruzione ipotetica che possiamo desumere dal complesso di informazioni frammentarie di cui disponiamo, e che risulta coerente con l’avveduta politica navale del terzo imperatore di Roma.

È stato valutato che la scomparsa delle grandi poliremi ellenistiche, i cui ultimi esemplari (deceremi) si videro ad Azio, sia stata essenzialmente dovuta alla loro estrema complessità, che richiedeva delle competenze eccezionali [146]. In tale ottica, la comparsa delle deceres Liburnicae di Gaio Caligola ci appare come un sicuro indizio delle non comuni qualità presenti nel giovane imperatore che le concepì, nei cantieri navali ravennati che le costruirono e nel personale della classis Ravennas che le fece navigare.

SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home

Note:

[1] Il sottotitolo riflette parte delle conclusioni di questo studio, da intendersi come indagine storica sui presunti mega-yacht marittimi di Caligola e sulle loro relazioni con la base navale di Ravenna.

[2] Suet. Cal. 37,3.

[3] “Il est clair, en tout cas, que le mot liburnicae n'est pas pris ici au sens propre.” (Reddé 1986, p. 107, nota 332).

[4] Medas 2004, p. 130.

[5] Veg. mil. 37. D’altronde Vegezio usa normalmente la parola liburna per indicare le navi combattenti della flotta romana (Veg. mil. 32-39 e 43-46).

[6] Nei primi tre secoli per indicare una nave da guerra si ricorreva talvolta alla parola trireme, come accade, ad esempio, nei libri di Tacito (contemporaneo di Svetonio, ancorché più anziano). Ma questo stesso storico usa le parole liburnica (12 volte) e liburna (una volta) sempre riferendosi alla specifica unità leggera (Tac. ann. 16,14; hist. 2,16 e 35; 3,12; 14; 42; 43; 47; 48; 77; 5, 23; Agr. 28; Germ. 9).

[7] Panciera 1956, pp. 151-153.

[8] Suet. Nero 34,3 e Suet. Plin.

[9] Avilia 2013, p. 121.

[10] Gli antichi non potevano avere dubbi sul significato di deceris. Per le grandi poliremi vedi successivo paragrafo 4.

[11] “A ponente l'incantevole riviera liburnica, verde di lauri, candida di cittadine, come Laurana, Ica, Abbazia, Volosca, che, sorgendo come per incanto dalle acque, s'accampano bianche e ridenti tra cielo e mare.” (Susmel 1919, pp. 1-2).

[12] Migrati nell’area adriatica probabilmente sul finire del secondo millennio a.C., provenendo dall’Asia (Solin. 2,51), forse dalla regione in cui si reputava fossero una volta vissute le mitiche Amazzoni (Serv. Aen. 1,243; cfr. Hor. carm. 4,4,20).

[13] Plin. nat. 3,38; Flor. epit. 1,21,1; il Cherca (in croato Krka) corrisponde al fiume Titius dei Romani.

[14] Nel periodo della loro massima espansione, i Liburni ebbero il controllo di tutte le isole dell’Adriatico, che venne anche chiamato “mare Liburnico” (Kreglianovich Albinoni 1809, pp. 26-27; Cattalinich 1834, p. 48; Anonimo 1863, p. 29).

[15] Plin. nat. 3,110 e 112; Kreglianovich Albinoni 1809, p. 24; Cattalinich 1834, p. 52.

[16] Sulla possibile funzione delle numerose stazioni portuali disseminate fra Aquileia e Ravenna in epoca protostorica, vedi Ferri 1962, pp. 473-475.

[17] Kreglianovich Albinoni 1809, pp. 8 e 77-98; Dzino 2003, p. 20.

[18] La legatura delle tavole era realizzata con delle sagole passate a spirale nella serie di fori obliqui praticati su entrambi i bordi contigui (Dell’Amico 2010, p. 42). Plinio il Vecchio precisa che per queste arcaiche navi “cucite”, chiamate sutiles naves, le sagole della cucitura erano realizzate in lino (Plin. nat. 24,40).

[19] Questo sistema, con biette infilate negli appositi incassi e fermate da una coppia di cavicchi, viene spesso indicato con l’espressione “mortase e tenoni", barbarismo poco rispettoso della nostra terminologia marinaresca (cfr. Ingravalle 2000, p. 121, e Bonino 2003, p. 64).

[20] Lo stesso incastro, utilizzato per i frantoi oleari, è stato descritto da Catone il Censore, che lo chiama poenicanum coagmentum (Cato agr. 18,9).

[21] Rispettivamente citati da Aulo Gellio e Festo (Gell. 17,3,4; Fest. p.343 M).

[22] Come confermato dal ritrovamento di relitti in Istria (Boetto 2014a, p. 23) e nell’isola di Nona, a nord di Zara (Boetto 2014b, p. 52).

[23] I relitti “cuciti” finora ritrovati in Italia sono quasi tutti relativi a piccoli natanti lagunari di uso locale (Bonino 1968, p. 214), tranne almeno tre idonei alla navigazione marittima, di cui uno a Cervia (Bonino 1978, pp. 40-42) e due – di dimensioni maggiori – a Comacchio e Lido di Venezia (Beltrame 2002, pp. 374-376).

[24] App. Ill. 3.

[25] Ad Azio il loro contributo fu prezioso, ma certamente non determinante. Per le due guerre citate, vedi Carro 2014, pp. 129-136.

[26] L’articolazione delle flotte imperiali può essere desunta, a grandi linee, dai dati finora conosciuti dalle fonti letterarie, epigrafiche e papiracee (Carro 2002, pp. 186-215).

[27] Ne abbiamo una possibile conferma dall’unico relitto navale di presunta liburna finora rinvenuto: quello del Tamigi (Gille 1965, pp. 43 e 68-70).

[28] Sil. 13, 240-243 ; Jal 1861, p. 124 ; Panciera 1956, pp. 143-145.

[29] Strab. 5,1,7; Proc. B.G. 1,1; cfr. Vitr. 1,4,11 e Sil. 8,601-2; Magnani 1998, p. 183; Venturini 2008, pp. 33-34.

[30] In quegli anni Cesare stabilì diverse volte il proprio quartier generale invernale a Ravenna: Caes. civ. 1,5,5; Flor. epit. 1,45,22; Suet. Iul. 30-31; App. civ. 2,32.

[31] Per l’abbondanza di legni necessari per le navi e per la presumibile presenza di carpentieri qualificati (Alfieri 1968, p. 205; Gnoli 2003, p. 5; Cirelli 2013a, p. 114).

[32] Ottaviano trasse da Ravenna diverse navi ivi costruite nell’inverno 40-39 a.C. e vi mise in cantiere molte altre unità nel successivo inverno 39-38 (App. civ. 5,78 e 80).

[33] App. civ. 5,111. La flotta di Ottaviano era costituita dalle 120 navi cedute da Antonio, oltre alle navi ravennati che il primo dovrebbe aver lasciato a Taranto nel precedente autunno (App. civ. 5,93 e 95).

[34] Reddé 1986, p. 350; Kos 2012, p. 94; Kurilic 2012, p. 115.

[35] Bermond Montanari 1961, p. 17; Magnani 2001, p. 39; Gnoli 2003, p. 6. Lavori emblematici furono la fossa Augusta e l’imponente faro (Plin. nat. 3,119 e 36,12).

[36] “È questa, con tutta evidenza, l’età d’oro della regione e dei suoi traffici.” (Panciera 2006b, p. 703).

[37] Gran parte di questo personale era originario della Dalmazia e della Pannonia: Tac. hist. 3,12,1 e 3,50,3; Ferrero 1878, p. 45; Forni 1968, p. 269; Bonino 1978, p. 30; Parma 2002, pp. 323-325.

[38] Susini 1961, pp. 37-38; Gnoli 2003, pp. 5-6.

[39] Susini 1961, pp. 36.

[40] Bonino 1978, pp. 33 e 36-38.

[41] È stato argomentato in modo convincente che quella partenza sia avvenuta proprio da Ravenna (Mazzarino 1979, pp. 179-182).

[42] Rankov 2013, pp. 39 e 47.

[43] Non vi sono delle reali certezze nemmeno sulla trireme, nonostante l'interessante tentativo di ricostruzione sperimentale della Olympias: cfr. Ingravalle 1990, p. 68, e Servello 1990, p. 88.

[44] “Non credo autorevole siffatta iconografia e non mi compiaccio di fondarmici su. Tuttodì nell’araldica noi vediamo leoni ed aquile e draghi e liocorni e consimili bestie da blasone che in natura non fur mai. Guai se tenendo conto di quelle immagini fantastiche ripetute si ardisse costruire una fauna medioevale!” (Vecchj 1892, p. 11)

[45] Reddé 1980, pp. 1036-1037.

[46] Con le ipotesi attualmente prevalenti, per esprimersi in modo rigoroso occorrono almeno quattro definizioni diverse a seconda della taglia delle unità: II-III, IV-VIII, IX-XVI, da XX in su (Basch 1987, p. 344).

[47] Per i Romani: bireme, trireme, quadrireme, quinquereme, ecc., dette in gergo tecnico diere (o dicrota), triere, tetrere, pentere, ecc., e contraddistinte dal simbolo del corrispondente numero romano sopralineato.

[48] Fori di uscita dei remi. Evito di parlare di “ordini di remi”, espressione foriera di equivoci data la sua apparente equivalenza con l’identica locuzione latina (dal controverso significato).

[49] “Concedo fino a due ordini di palchi sovrapposti nelle massime antiche poliremi e nei dromoni di Bisanzio; più in là non so andare colla guida del buon senso” (Vecchj 1892, p. 12). Alcuni ammettono anche la possibilità di un terzo livello, come per le triremi (Avilia et al. 1989, p. 142).

[50] Plin. nat. 7, 208.

[51] Plut. Demet. 20,4 e 43,4-5. Queste poliremi non comparvero alla battaglia navale di Salamina di Cipro (307 a.C.), in cui si fronteggiarono le navi di linea dell’epoca (quinqueremi e quadriremi), anche se Demetrio vi schierò anche qualche unità da VI e da VII (Diod. 19,49-52). Cfr. Polyaen. 4,7,7.

[52] Athen. 5,44. Questa nave, di cui si conosce decisamente poco, potrebbe coincidere con la polireme da IX citata da Paus. 1,29,1.

[53] Athen. 5,36. Oltre alle due XXX, vi erano una XX, quattro XIII, due XII, quattordici XI, trentasette VII, cinque VI, seguite dai tipi più comuni.

[54] Athen. 5,37. Va respinta l’ipotesi che si trattasse di un catamarano (Basch 1987, p. 352 ; Janni 1996, p. 437; Bonino 2003, p. 113).

[55] Athen. 5,38 -39.

[56] Athen. 5,40-44. Gerone, alleato di Roma dal 263 a.C., si liberò di quella nave troppo ingombrante inviandola in dono a Tolomeo III Evergete.

[57] Plut. Demet. 43,4; Vecchj 1892, p. 59; Basch 1987, p. 346 e 353; Bonino 2003, p. 156 e 172-173.

[58] Morello 2008, pp. 3, 6 e 9.

[59] Quadriremi e, soprattutto, quinqueremi, spesso accompagnate da alcune unità maggiori come navi ammiraglie: esaremi (o exaremi o sex-remi secondo Muratori 1740, p. 784) e septiremi.

[60] Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, non fu da meno. Sappiamo infatti che solo all’inizio della sua terza guerra contro i Romani egli decise di togliere dalle sue navi “gli sfarzosi appartamenti per le donne, i baldacchini d'oro ed i bagni per le concubine” (Plut. Luc. 7, 5).

[61] Al termine della II guerra Macedonica i Romani la lasciarono al re sconfitto perché la giudicarono di difficile manovra (Liv. 33,30,5; Pol. 18,44,6).

[62] Questa nave, catturata al termine della III guerra Macedonica, venne portata a Roma ed immessa, con altre grandi poliremi macedoni, nei Navalia del Campo Marzio (Liv. 45,35,3 e 45,42,12; Pol. 36,5,7; Plut. Aem. 30,2).

[63] Sono ricordati il panfilo fluviale (thalamego) utilizzato per una crociera sul Nilo con Cesare

(Suet. Iul. 52,1; App. civ. 2,90) e la splendida nave a bordo della quale incontrò Antonio in Cilicia (Plut. Ant. 26).

[64] Cass. Dio 50,23,2; Plut. Ant. 61 e 64.

[65] Murray 2007, pp. 446 e 449.

[66] Tac. ann. 4,5. Questa sistemazione dovrebbe essere avvenuta intorno al 29 a.C. (anno del trionfo di Ottaviano dopo la guerra Aziaca), ovvero una settantina di anni prima delle deceremi di Caligola.

[67] Sotto i primi Cesari, le quinqueremi rimasero in numero consistente, come si evince dal progetto della fossa Neronis (Suet. Nero 31).

[68] È ben nota la Ops della flotta di Miseno (CIL X, 3560 e 3611), ma non è escluso che ve ne fosse una anche a Ravenna (Bonino 1978, p. 32).

[69] Questo giudizio sembra aver influenzato l’aneddoto moralistico della nave immaginaria del re Eeta: enorme e ricolma di palazzi e giardini, ma destinata ad affondare miseramente nei primi marosi incontrati (Max. Tyr. 30).

[70] Lucian. nav. 5-9; cfr. Sen. epist. 77,1.

[71] La nostra conoscenza di queste navi proviene essenzialmente dalle notizie fornite dall’archeologia subacquea sui vari relitti rinvenuti.

[72] Una delle sette meraviglie del mondo, opera di Fidia. La nave venne costruita, ma fu colpita da un fulmine (Cass. Dio 59,28,3-4; Suet. Cal. 57).

[73] Plin. nat. 36,69-71; Vict. Obelisci magni. Si tratta dell’obelisco che ornò il Circo Massimo, venendo poi risistemato al centro di Piazza del Popolo da Domenico Fontana nel 1589.

[74] Plin. nat. 16,201-202 e 36,70. Anche questo obelisco venne nuovamente innalzato da Domenico Fontana, nel 1586, al centro di Piazza S. Pietro, a poche decine di metri dalla sua collocazione originaria.

[75] Ad esempio, gli obelischi trasportati e le impronte dei rostri delle deceremi.

[76] Ucelli 1950, pp. 260-261; Bonino 2003, p. 61.

[77] Bonino 2003, p. 111.

[78] Bonino 2003, pp. 31-32 e 136-138.

[79] “la misura e il gusto di queste decorazioni fanno apparire un po' 'barbaro' tutto quello che di analogo ha prodotto l'età moderna, i suoi vascelli dalle poppe sovraccariche di sculture e dalle prue adorne di polene sempre vicine alla caricatura.” (Janni 1996, p. 445)

[80] Bonino 2003, pp. 109 e 164.

[81] “le navi di Caligola sono probabilmente l’espressione massima del design italiano” (Avilia 2013, p. 119; vedi anche p. 121).

[82] Per la tempistica: Bonino 2003, pp. 82 e 145; per il silenzio delle fonti: Janni 1996, p. 440.

[83] In questo paragrafo ne vengono brevemente ricordati alcuni degli aspetti più significativi. Per i riferimenti ai vari studi storici ed archeologici che sono alla base di tale ricostruzione, vedi Carro 2013, pp. 146-151.

[84] Ibid. pp. 144-146.

[85] Più di 3 km di strada distesa sulle navi (Suet. Cal. 19 e Cass. Dio LIX, 17).

[86] Il prestigio goduto all’esterno da Caligola fin dal suo avvento gli era valso il riavvicinamento politico del re dei Parti (Suet. Cal. 14 e Vit. 2; Ios. ant. Iud. 18,4,4-5; Cass. Dio 58,26 e 59,27), un po’ com’era accaduto ad Augusto (R.Gest.div.Aug. 29).

[87] Il concetto della dissuasione – o deterrenza – conseguita dalle flotte da guerra era molto chiaro presso i Romani: Veg. mil. 4,31: Starr 1960, p. 7; Reddé 1986, p. 488; Avilia et al. 1989, p. 133.

[88] Suet. Cal. 51,3. Si trattava della già esistente classis Germanica.

[89] Il porto romano più avanzato era Flevum, odierno Velsen, sede di intense attività in quel periodo.

[90] Tac. Germ. 35. Erano stanziati fra le foci dell'Ems (Amisia) e dell'Elba.

[91] Varo di una nuova flotta, condotta di esercitazioni dimostrative di sbarco anfibio, sistemazione della base navale di Gesoriaco ed erezione del relativo faro (Suet. Cal. 46): “la costruzione del faro è la prova materiale dei piani di futura conquista.” (Diosono 2013, p. 165).

[92] Oltre all’onore dell’ovazione (Cass. Dio 59, 23, 1), egli ricevette la settima acclamazione imperatoria e venne chiamato optimus princeps (come poi accadrà a Traiano) e pater exercituum (Gregori 2014, pp. 303-304).

[93] Plin. nat. 5,11.

[94] Con suo padre, Germanico, da Ravenna in Siria (Tac. ann. 2,53-55).

[95] Le fonti parlano di navi da guerra. L’itinerario, fatalmente nostalgico, doveva partire da Ravenna (Phil. legat. 250-251; Ios. ant. Iud. 19,1,12).

[96] Secondo l’interpretazione più sbrigativa si sarebbe trattato “solo di capricci e bizzarrie, con un tocco di antiquariato” (Janni 1996, p. 252).

[97] Secondo la descrizione che ne fornisce lo stesso Svetonio.

[98] Palladino 2013, pp. 140-141.

[99] Gaio Caligola fece propri i convincimenti di Augusto, che aveva perfettamente compreso quanto fosse opportuno lasciare che le popolazioni dell’Oriente (e non solo) lo venerassero come un monarca oggetto di onori divini: cfr. La Rocca 2011, pp. 179-181.

[100] Plin. nat. 32,4. Questa circostanza costituisce una riprova che le deceremi si trovassero a Ravenna, pronte per il viaggio del principe in Oriente.

[101] Essendo stato giudicato impresentabile (Suet. Claud. 4) rimase nell’ombra, mentre suo fratello Germanico assurgeva alla gloria, al potere e ad una straordinaria popolarità.

[102] Suet. Cal. 15,2 e 59,1. Da quando Caligola lo prese come collega nel suo primo consolato, Claudio riscosse dal Senato una deferente attenzione.

[103] Suet. Claud. 10. Questa mirabile (e sospetta) casualità stride con la furia dei pretoriani che trucidarono il proprio imperatore, con la moglie e la figlia di due anni, istigati da un Senato anelante a liberarsi definitivamente dei Cesari. Quell’efferato ammutinamento si ammansì improvvisamente alla vista di Claudio, che non era certamente una figura carismatica, ma si fece comunque trovare già pronto a succedere al nipote.

[104] Cass. Dio 60,4,5-6; Suet. Claud. 11,1 e 3.

[105] Plin. nat. 36, 122-123; Suet. Cal. 21; Suet. Claud. 20. Panciera 2006a, pp. 459-460. Vista l’imponenza dell’acquedotto, Plinio il Vecchio valutò che “nulla può essere esistito di più grandioso in tutto l’orbe terrestre”.

[106] Plin. nat. 16,201-202 e 36,70; Suet. Claud. 20; Cass. Dio 60,11,4.

[107] Cass. Dio 60, 8, 6.

[108] Cass. Dio 60,8,7; Suet. Gal. 8, 1; Plut. Gal. 3.

[109] Suet. Claud. 17; Cass. Dio 60, 19, 1. Evento del 42 d.C., anno successivo alla morte di Gaio. Claudio venne subito persuaso dal re britanno ed ordinò l’esecuzione della spedizione oltre-Manica a partire dalla seguente primavera.

[110] Doveva chiamarlo alle prime difficoltà incontrate, per consentigli di intervenire in pompa magna, con rinforzi ed elefanti (Cass. Dio 60,21,1-2; Polyaen. 8,23,5).

[111] Questo sbarco, sebbene effettuato con forze inferiori a quelle che erano state appena sufficienti al pur geniale Cesare, apparve un’impresa scarsamente contrastata, incruenta e di infimo rilievo bellico (Suet. Claud. 17,1-2).

[112] Cass. Dio 60, 21,4-5 e 23,1.

[113] Inclusa l’erezione a Roma di un arco di trionfo, la cui iscrizione precisa che la sottomissione dei re dei Britanni avvenne “sine ulla iactura” (CIL 6, 40416), ovvero senza subire alcuna perdita.

[114] Suet. Claud. 17.3; Reddé 1997, pp. 72-73. La corona navale era un’onorificenza rara ed ambita, conferita solo a chi aveva conseguito, come Agrippa, una memorabile vittoria navale su di una flotta temibilissima.

[115] Tac. ann. 12,56; Suet. Claud. 21; Mart. spect. 28,11-12; Cass. Dio 60,33.

[116] Suet. Claud. 17,2; Cass. Dio 60,23,l.

[117] Nella Germania superiore. In tal caso, egli avrebbe potuto giungere in Italia dalla via Claudia Augusta, passare da Verona e raggiungere Ostilia, navigando quindi sul Po fino alla foce meridionale, prossima a Ravenna.

[118] La Rocca 1992, pp. 265-267; Fasolini 2006, pp. 89, 110, 144-148.

[119] La Rocca 1992, pp. 270-274; Fasolini 2006, pp. 109 e 148-149; Cirelli 2013a, p. 112; Cirelli 2013b, pp. 123-124 e 128; De Maria 2015, pp. 19-24.

[120] La Rocca 1992, pp. 297-298 e 311-312; Cirelli 2013b, p. 133; De Maria 2015, pp. 24-25.

[121] Plin. nat. 3,119.

[122] Roncuzzi 2005, p. 31, Uggeri 2006, p. 10; Corti 2007, p. 267; Felletti 2008, p. 11.

[123] Alfieri 1968, p. 202; Bonino 1978, p. 37; Roncuzzi 2005, p. 31. Altrimenti la nave si sarebbe più logicamente dovuta trovare nell’ampio porto di Ravenna, accreditato di una capienza di 250 navi (Iord. Get. 29).

[124] Non si può escludere che la navigazione sia poi proseguita fino ad Ostia (La Rocca 1992, p. 267; De Maria 2015, p. 19), anche se sembrerebbe più verosimile il ritorno a Roma sulla più breve e più “trionfale” via Flaminia.

[125] Il conferimento del nome “colonia Claudia Augusta Felix Iadera” all’antica Zara, evidentemente scaturito dai meriti acquisiti agli occhi di Claudio dalla principale città della Liburnia, avvenne probabilmente in occasione dei festeggiamenti navali al rientro dalla Britannia (Kreglianovich Albinoni 1809, pp. 201-203).

[126] Bonino 1978, p. 37.

[127] Da Lione il percorso diretto era ovviamente quello fluviale sul Rodano e poi quello marittimo fino ad Ostia, ripercorrendo in senso inverso l’itinerario seguito nel viaggio di andata (Suet. Claud. 17,2 e Cass. Dio 60,21,3).

[128] L’assenza di ogni ulteriore notizia su quelle navi così appariscenti lascia intendere che esse non ebbero più alcun impiego di qualche rilievo.

[129] Ipotesi basata sulle affinità esistenti fra le descrizioni delle deceremi e della “nave palazzo”, sull’improponibilità di un’attribuzione della costruzione di quest’ultima a Claudio, nonché su quanto detto nella nota 100.

[130] Suet. Cal. 37,3 e Plin. nat. 3,119.

[131] Per i tempi di costruzione è stata presa a riferimento la valutazione formulata da Marco Bonino per le navi di Nemi (vedi precedente nota 82).

[132] Svetonio ne parla infatti al plurale. Data la loro eccezionalità, ipotizzarne più di due sarebbe difficilmente motivabile. La coppia appare invece coerente con la soluzione adottata a Nemi, sia pure per un’esigenza molto diversa.

[133] Come è stato riscontrato per le navi di Nemi (paragrafo 7). Molto saggiamente Caligola non volle far ricostruire le deceremi di settant’anni prima, che erano state condotte da suo bisnonno Antonio e sconfitte dall’altro suo bisnonno, Augusto: non vi fu dunque alcuna nostalgia per i modelli ellenistici del passato.

[134] I fabri navales romani avevano studiato la quadrireme di Annibale Rodio per progettare le quinqueremi veloci che vinsero i Cartaginesi nelle acque delle Egadi (Pol. 1, 47 e 59).

[135] Cesare aveva osservato le caratteristiche delle navi oceaniche dei Veneti transalpini e ne tenne conto nel progettare le sue 600 actuariae speciali per il secondo sbarco anfibio in Britannia (Caes. Gall. 3,13 e 5,1).

[136] Bonino 2003, p. 147.

[137] Nave praetoria per gli antichi, “ammiraglia” nel gergo mediatico.

[138] L’attenzione di Gaio nella cura dei particolari traspare bene dalle direttive ch’egli diede per il completamento dei lavori di ristrutturazione degli edifici delle sue proprietà sull'Esquilino (Phil. legat. 351, 358 e 364-365). Anche sulle navi di Nemi appare evidente la mano del giovane imperatore (Bonino 2003, p. 145).

[139] A differenza delle navi di Nemi, le deceremi hanno lasciato una traccia nelle antiche fonti letterarie.

[140] Bonino 2003, p. 149; ipotetica ricostruzione della Siracusia: pp. 169-173.

[141] Secondo le citate descrizioni di Plinio il Vecchio e Svetonio.

[142] Le poppe “gemmate” di cui parla lo stesso Svetonio.

[143] La fonte è sempre il predetto passo di Svetonio.

[144] Cfr. ultimo capoverso del paragrafo 7.

[145] Alcuni indizi piuttosto eloquenti sono stati illustrati nel paragrafo 8. Per un’analisi più approfondita dell’ambigua personalità di Claudio, cfr. Fasolini 2006, pp. 9-44.

[146] “les hypergalères exigeaient des constructeurs, des équipages et des ouvriers d'arsenaux d'exception.” (Basch 1987, p. 345)

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Didascalie delle illustrazioni

FIGURA 1. Nave in costruzione a Ravenna ad opera del faber navalis Publio Longidieno (Museo Nazionale di Ravenna. Foto D. Carro).

FIGURA 2. Bassorilievo della Colonna Traiana che mostra, alle spalle dell’imperatore (in piedi, a poppa della propria nave praetoria), i tetti a volta dei navalia di Classe, base navale di partenza della flotta romana all’inizio della seconda campagna Dacica. (Foto D. Carro).

FIGURA 3. Alcuni dei bronzi delle navi di Nemi: in alto, teste di fiere con anelli d’ormeggio; in basso, la battagliola della prima nave, sorretta da candelieri a forma di raffinate erme bifronti. (Museo Nazionale Romano - Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Foto D. Carro).

FIGURA 4. Sintesi schematica delle principali iniziative di Gaio Caligola verso le aree limitrofe dell’Impero: 1) trasferimento navale di forze in Mauretania; 2) avvio delle operazioni oltre-Reno dalle due Germanie (Superiore ed Inferiore); 3) predisposizioni strategiche per il successivo sbarco in Britannia; 4) predisposizione del suo viaggio ad Alessandria.

FIGURA 5. Il grande faro eretto da Caligola sul Passo di Calais per consolidare il collegamento marittimo con la Britannia, dopo aver avviato la costruzione della flotta nel porto di Gesoriaco (poi chiamato Bononia): stampa del 1725 riproducente due disegni antecedenti al 1644, quando l'imponente torre romana di Boulogne-sur-Mer era ancora integra (Bibliothèque nationale de France)..

FIGURA 6. Percorso iniziale dell’andata di Claudio da Roma verso la Britannia e presunto itinerario seguito dallo stesso imperatore nel suo viaggio di ritorno in Italia, con un’anomala deviazione – implicante il valico delle Alpi (seguendo probabilmente il tracciato della via Claudia Augusta) – verso l’Adriatico.

FIGURA 7. La Porta Aurea di Ravenna, riprodotta in un disegno del Palladio (Museo Civico di Vicenza).

FIGURA 8. Bassorilievo proveniente da un monumento eretto a Ravenna probabilmente in occasione dell’arrivo di Claudio dalla Britannia. I personaggi rappresentati su questo frammento dovrebbero essere, da destra verso sinistra, il Divo Augusto, Antonia Minore, Germanico e Druso Maggiore, ovvero – rispettivamente – il prozio, la madre, il fratello ed il padre di Claudio (Museo Nazionale di Ravenna. Foto D. Carro)

FIGURA 9. Riepilogo grafico dei movimenti delle navi pretorie di Gaio Caligola: 1) possibili trasferimenti delle deceres Liburnicae da Ravenna al Tirreno (con sosta a Miseno e prove in mare con il principe a bordo) e ritorno; 2) ultima navigazione del giovane imperatore su di una quinquereme.

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