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L'Imperatore Cesare Augusto a André, salve.
Ho letto la tua lettera con la massima attenzione. Ciò nonostante, non sono
riuscito a scorgervi con quale mezzo hai cercato di manifestarmi la tua
simpatia.
Dici molte cose che sono palesemente contrarie alla realtà, e ne aggiungi
altre che sono prive di qualsiasi senso. Quello che manca, per contro, è la
domanda. Sembrerebbe che tu non abbia alcun interesse a richiedere il mio
parere su qualcosa di preciso, visto che ti accontenti di esporre le tue
opinioni sulle informazioni decisamente distorte di cui disponi.
Non ho alcuna intenzione di replicare alle farneticazioni, né alle allusioni
stravaganti. Mi limiterò a rettificare le due sole affermazioni chiare che hai
incluso nella tua lettera.
«Si trattava di loro o di te».
No, non si trattava di me o di loro, ma di Roma o Alessandria. Si trattava
della preservazione della nostra civiltà, o della sua irrimediabile corruzione.
Si trattava del mantenimento dei nostri culti, delle nostre leggi e dei nostri
costumi, o della perdita di tutto ciò che avevamo di più caro, di più sacro, di
più equo, di più romano.
Questa difesa del nostro mondo contro l’aggressione che veniva recata da
un’enorme coalizione di potenze orientali non può essere ridotta al rango di
un mero regolamento di conti tra due o tre personaggi. Nelle acque di Azio,
non è il destino di Cleopatra e di suo marito che è affondato. È l’ambizioso
sogno, tre volte secolare, di resuscitare l’impero alessandrino e di
estendere l’egemonia ellenistica dall’Oriente verso l’Occidente,
impadronendosi dell’Italia e sottomettendo la città di Roma.
Non si trattava di un capriccio estemporaneo, ma dell’ossessione
persistente che aveva tormentato la mente di molti sovrani dei più potenti
regni del Mediterraneo orientale. Fra di essi, quelli che si erano rivelati i
nemici più pericolosi per Roma erano stati i due ultimi re di Macedonia
(padre e figlio), Filippo e Perseo, uno degli ultimi re di Siria, Antioco il
Grande, e l’ultimo re del Ponto, Mitridate Eupatore. La sete di conquista di
questi re aveva generato una serie di guerre interminabili (nell’arco
complessivo di oltre 70 anni), che i Romani avevano dovuto combattere con
delle flotte e degli eserciti ingentissimi, sotto il comando dei nostri uomini
migliori, quali Marco Valerio Levino, Tito Quinzio Flaminino, Scipione Asiatico
aiutato da suo fratello l’Africano, Lucio Emilio Regillo, Lucio Emilio Paolo,
Gneo Ottavio, Lucio Cornelio Silla, Lucio Licinio Lucullo e Pompeo Magno.
Il conflitto suscitato dall’ultima regina d’Alessandria è in effetti stato il quinto
grande tentativo dell’Oriente ellenizzato contro Roma. Lo scopo era lo
stesso di quello dei quattro re precedenti, i metodi non erano in nulla
differenti, i rischi che ne scaturivano per il nostro mondo erano altrettanto
gravi. Non è che per respingere questa minaccia del tutto seria e reale, e
non per aumentare le mie possibilità di successo personale, che il popolo di
Roma e l’Italia intera mi giurarono fedeltà quando dovemmo prepararci alla
guerra, sebbene io non fossi che un semplice cittadino, avendo rimesso tutti
i miei poteri di triumviro.
L’anno dopo, essendo stato eletto console per la terza volta, affrontai
questa guerra con i soli poteri che mi erano conferiti da tale magistratura.
Ed fu ancora con i soli poteri consolari che posi termine al conflitto entrando
ad Alessandria l’anno successivo, in nome del Senato e del popolo romano.
«Hai scelto la crudeltà».
La mia scelta non è stata la crudeltà, ma il ritorno della pace civile e della
concordia a Roma, così come l’instaurazione della pace sulla terra e sul
mare.
Il mio atteggiamento nei confronti di coloro che avevano preso le armi contro
Roma e contro me stesso fu quello del rispetto della legalità, addolcita da
larghe concessioni alla clemenza. Ho fatto il massimo sforzo in tale
direzione, senza oltrepassare i limiti della prudenza e dell’equità. In effetti,
non avrei certamente potuto riprodurre integralmente il criterio di clemenza
generalizzata ed incondizionata che fu caro a mio padre, poiché avevo avuto
la sventura di constatare che tale clemenza aveva beneficiato la maggior
parte dei congiurati delle idi di marzo, ma non ne aveva in alcun modo
smussato i pugnali. Ciò nonostante, la mia principale preoccupazione fu
quella di favorire la riconciliazione fra tutti i cittadini della Repubblica,
facendo cadere i motivi di contrasto e, soprattutto, facendo attenzione a non
creare nuovi germi di rancore. Non è un risultato che avrei potuto ottenere
scegliendo la crudeltà.
D’altronde i Romani non hanno mai pensato ch’io avessi fatto una scelta
talmente insensata. Tutt’al contrario, essi hanno voluto che la mia casa
fosse ornata da una corona civica, per testimoniare che avevo salvato la vita
d’un gran numero di concittadini.
Vale,
IMP. CÆS. AVG. |