Cristina Rodriguez in collaborazione con Domenico Carro
« Le César aux pieds nus »
Edizione in brossura: Flammarion, Parigi, 2002
Formato Kindle: Tomo I - Tomo II

In Campania - Aspetti navali e marittimi

Da Puteoli a Miseno e Capri

di  DOMENICO CARRO     

Testi che avevo scritto per « Le César aux pieds nus » e che sono stati parzialmente utilizzati per i due primi capitoli del libro III del nostro romanzo. Non si tratta dunque di citazioni tratte dalla predetta opera, ma di una minima parte dei contributi che ho fornito come materiale propedeutico alla redazione del romanzo da parte di Cristina Rodriguez in collaborazione con me stesso. Visto che questi vari pezzi formano un insieme abbastanza omogeneo e comprensibile anche al di fuori del contesto del romanzo, li pubblico in questa pagina del mio sito poiché possono risultare di qualche interesse sotto l'ottica navale e marittima. Le parti in corsivo sono delle mie considerazioni personali, mentre quelle in carattere tondo raccontano ciò che avrebbe dovuto verificarsi durante il viaggio in Campania effettuato nel 31 d.C. dal giovane Gaio (Caligola, ancora diciannovenne) con il suo fedele schiavo personale, Elicone.

  1. Puteoli
  2. Considerazioni sulla penisola di Miseno
  3. La base navale di Miseno
  4. Esercitazioni navali nel bacino interno
  5. La quinquereme Victoria
  1. La trireme Vesta
  2. Navigazione a vela da Miseno a Capri
  3. Considerazioni sull'arrivo a Capri
  4. Dal porto di Capri alla Villa Iovis
  5. Considerazioni finali sulla visibilità
© 2012 - Proprietà letteraria e artistica di DOMENICO CARRO.

  

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I. Puteoli

Il porto [1] era pieno di navi mercantili di grandi dimensioni, alcune ormeggiate lungo i moli per scaricare le merci trasportate, altre alla fonda in rada, in attesa di un posto in banchina. Le scialuppe di queste ultime navi e varie altre imbarcazioni solcavano la rada per assicurare tutti i collegamenti necessari, mentre un piccolo rimorchiatore, vigorosamente sospinto dai propri remi, spostava un grosso cargo verso l'ormeggio che gli era stato assegnato.

Passammo sottobordo ad un'imponente oneraria che si approntava per lasciare il porto, diretta ad Alessandria. Doveva essere un vascello di almeno 18000 anfore (circa 470 tonnellate di stazza). Il suo albero maestro superava in altezza tutte le alberature delle altre navi vicine e sosteneva un enorme pennone sul quale la vela principale era accuratamente serrata. Dei gabbieri si arrampicavano già lungo le sartie per predisporsi alla manovra. Sull'alta poppa, elegantemente ornata dal tradizionale collo di cigno, dei marinai regolavano la posizione dei due timoni, sotto lo sguardo vigile di un ufficiale. Tutti gli altri membri dell'equipaggio si affrettavano a raggiungere il proprio posto di manovra in coperta o a prua, mentre due mozzi destinati alle cucine, nient'affatto impressionati dallo zelo degli altri, rimanevano a sghignazzare appoggiati ai bastingaggi, osservando due ragazze che passeggiavano sul molo e che si erano girate al loro fischio.

Al di là della banchina, la scena era dominata dagli enormi horrea, i cui muri di cinta si stendevano a perdita di vista. Al centro della facciata si apriva un portale monumentale, piuttosto stretto, verso il quale si dirigevano tutti gli uomini che portavano il grano e le altre derrate scaricate dalle navi e da conservare in questi magazzini. Dalla porta si scorgeva un ampio cortile, interamente attorniato da un portico sotto il quale erano disposte, ad intervalli regolari, le piccole porte dei vari depositi. Si diceva che questi ultimi avessero dei muri molto spessi ed erano realizzati con certi accorgimenti costruttivi che assicuravano il mantenimento di un'aria sempre fresca ed asciutta. Ciò doveva servire, unitamente all'assenza di luce, alla conservazione di tutti i prodotti immagazzinati, senza farli alterare o fermentare, finché venissero ripresi ed avviati verso Ostia e Roma su delle navi più piccole.

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II. Considerazioni sulla penisola di Miseno

Partiti da Puteoli, Gaio ed Elicone avrebbero potuto arrivare a Miseno in un'ora, andandovi direttamente senza mai fermarsi, oppure in due ore se si tiene conto del probabile rallentamento durante il transito nella ridente città di Baia e lungo la strada più a sud, costeggiata di ville marittime.
In effetti, sulla costa fra Baia e la rada di Miseno, vi era l'antica Bauli (attuale Bacoli), che non era una città ma un insieme di grandi ville marittime, di cui le più celebri erano quelle costruite dall’oratore Ortensio (divenuta proprietà di Antonia) e da Lucullo (divenuta proprietà imperiale).

Quanto a Miseno, dopo aver attentamente confrontato le varie ricostruzioni trovate finora, sono pervenuto alla conclusione che nessuna di esse fosse sufficientemente soddisfacente, tenuto conto delle esigenze di una flotta quale la Classis Misenensis. Ho quindi realizzato una mia personale ricostruzione (immagine a lato).
Gli elementi principali sono: la base navale, che doveva certamente includere buona parte della rada e le rive del lago; la cittadina di Misenum, sulla costa nord della penisola; le altre costruzioni esterne alla base, quali i fari e fanali, la torre d’osservazione, la grande cisterna d’acqua, ecc.


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III. La base navale di Miseno

Usciti dalla villa marittima di Antonia, dopo aver ripreso la strada che va da Baia a Miseno, giungemmo sulla riva orientale d’un lago costiero, la cui riva opposta pareva confondersi con il mare esterno. Procedemmo per qualche tempo lungo la riva, mentre sulla nostra sinistra costeggiavamo il fianco di una collina sulla cui sommità emergeva una costruzione bassa ma estesa, in corrispondenza della quale sfociava un acquedotto proveniente da nord. Si trattava, secondo la nostra guida, della parte superiore d’una enorme cisterna, che era stata scavata nel tufo della collina, e che serviva da serbatoio d'acqua per le esigenze della flotta. Era, a quanto si diceva, la più grande costruzione di quel genere in tutto l’impero, più vasta e maestosa della grande sala centrale della basilica Giulia del Foro Romano, tanto che il popolino la chiamava localmente la Piscina Mirabilis.

Poco dopo pervenimmo all’ingresso della base navale, sorvegliata da dei classiari, i militi della flotta [2]. Alla nostra sinistra si apriva la rada del porto di Miseno, pieno di navi, mentre a destra la riva del lago era occupata da cantieri navali. Dopo aver superato alcune costruzioni militari, giungemmo al canale che mette in comunicazione la rada con il lago di Miseno, facendo di quest'ultimo il bacino interno del complesso portuario. Lì stazionava durante l’inverno il grosso della flotta, bene al riparo, lasciando in rada solo le navi pronte a salpare per le esigenze più urgenti. Allora, dato che eravamo all'inizio della primavera, una buona metà della flotta era già passata in rada, mentre le rimanenti si trovavano ancora nel lago per effettuarvi alcune esercitazioni, allo scopo di completare l’addestramento degli equipaggi prima di andare per mare.

Mentre passavamo sul robusto ponte in legno che attraversa il canale, una grossa quadrireme vi navigava sotto, in direzione della rada, con i due alberi abbattuti, come per il combattimento navale; ma si trattava evidentemente di una predisposizione necessaria per poter transitare sotto un passaggio così basso.

Al di là del ponte si stendevano tutte le strutture della base navale. A sinistra della strada vi erano invece le navi operative, che occupavano l'intera riva occidentale della rada. In corrispondenza della base navale, vi erano le navi lunghe, cioè le navi da guerra, ormeggiate di punta con la poppa in banchina e la prora verso l'imboccatura del porto, in modo da poter prendere il mare il più rapidamente possibile [3]. Esse apparivano tutte perfettamente allineate e disposte in un ordine molto rigoroso, le più piccole nei pressi del canale navigabile, quelle maggiori in fondo, laddove terminava la base navale verso sud. Più avanti, così come sulla sinistra del canale, erano ormeggiate le actuariae, navi da trasporto, le onerarie e tutte le altre unità destinate al sostegno logistico della flotta.

Verso l’interno della base, ogni nave da guerra aveva il suo proprio magazzino, ove erano conservati l'attrezzatura, le vele, i remi, le armi e tutti gli altri materiali che servivano ad armare la nave, e che potevano essere imbarcati o meno a seconda del tipo di missione da compiere. Non lontano gli equipaggi avevano le loro caserme, con dei dormitori, le mense, le sale di ricreazione, dei larari e tutto ciò che occorreva affinché i marinai si sentissero particolarmente a proprio agio nella loro base navale.
Al centro della base si apriva la piazza del pretorio, con un tempio dei Lari Permarini e, di fronte, l’edificio del comando in capo della flotta, sede del praefectus classis, attorniato dagli edifici che servivano al suo stato maggiore.

Sul lato ovest della base, lungo il lago, vi erano i navalia, per le manutenzioni delle navi della flotta durante l'inverno e per le riparazioni che si rendevano necessarie anche negli altri periodi dell’anno. Si trattava di une lunga successione di hangar, coperti da grandi arcate, ove le navi erano tirate a secco ed al riparo dalle intemperie, durante tutto il tempo necessario ai lavori di manutenzione. Era abbastanza buffo vedere, al disotto di quelle arcate, le prore delle navi maggiori che ci guardavano con i loro grandi occhi, come per implorarci di lasciarle libere di tornare per mare [4].

Alla fine dei navalia, la banchina proseguiva lungo tutta la riva sud del lago, ed era occupata dalle navi che rimanevano nel bacino interno per effettuarvi delle esercitazioni, poiché non era ancora possibile compiere tale addestramento in alto mare a causa del maltempo. Dietro la banchina, la stretta striscia di terra che separava il lago dal mare era riservata alla militum schola, la scuola e l'area di addestramento delle reclute della milizia navale, cioè dei classiari che erano destinati ad imbarcarsi sulle navi della flotta.

Dopo aver attraversato tutta la base navale, la strada proveniente da Baia proseguiva verso la cittadina di Miseno, sulla riva nord dell'omonima penisola, con le case per le famiglie del personale della flotta. Fra gli edifici più importanti, vi era un tempio del divo Augusto (il cui culto era assicurato dal collegio degli Augustali) ed un teatro. La parte occidentale dell'abitato era stata riservata agli alloggi di servizio degli ufficiali. Un particolare rilievo era stato conferito al prestigio del comandante in capo della flotta, il praefectus classis, che disponeva di una splendida villa che dominava la rada.

Di fronte a questa villa, sulla penisola che proteggeva il porto dal lato nord, s’innalzavano due altre costruzioni maestose: una grande torre d’osservazione nei pressi dell’imboccatura del porto e, più all’interno, la villa spettacolare che era stata costruita da Lucio Lucullo ed era recentemente divenuta di proprietà imperiale.
L’imboccatura del porto era segnalata da un fanale, mentre un faro più grande era stato eretto sul promontorio di Miseno, di fronte all'alto mare.

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IV. Esercitazioni navali nel bacino interno

Nel lago regnava la più grande confusione. Una decina di navi da guerra vi navigavano contemporaneamente, incrociandosi molte volte ed effettuando delle manovre reiterate che le ponevano nelle situazioni più pericolose nei confronti delle altre. Private delle loro vele e dei loro alberi, queste navi somigliavano ad enormi millepiedi che correvano sulla superficie del lago in preda alla follia e fra clamori assordanti.
Venivano utilizzate per queste esercitazioni le più vecchie delle unità da guerra minori, del tipo delle liburne o delle speculatoriae. Gli equipaggi da addestrare erano suddivisi in due squadre, chiamate convenzionalmente gli Ateniesi ed i Persiani, che si distinguevano dai diversi colori degli scafi. Nel lago essi si impegnavano in una naumachia: una simulazione di combattimento navale in cui si evitava di far subire alle navi dei danni irreparabili. Per tale motivo, i rostri erano stati sostituiti da una spessa fascia di parabordi in cuoio.

Per capire ciò che stava avvenendo, occorreva osservare attentamente una sola nave per volta, seguendo le manovre ch'essa faceva rispetto a quelle del suo diretto avversario.
In primo piano, una nave dallo scafo azzurro continuava a controllare le evoluzioni di un avversario giallo, cercando di costringerlo a rallentare il suo moto ed a mettersi di traverso. Infine, dopo un'impressionante serie di cambiamenti di direzione e di velocità, di tentativi d’attacco, di allontanamenti e di altre finte sconcertanti, eccolo accelerare a tutta forza contro il fianco della nave avversaria. Un grido spaventoso scaturì da entrambe le navi al momento del contatto, per la gioia dell’equipaggio vincitore e la disperazione degli sconfitti. Lo scafo giallo si inclinò pericolosamente sotto il colpo ricevuto, ma, dopo un lungo momento di incertezza, si raddrizzò senza aver apparentemente subito alcuna rottura.

Nel frattempo, altre due navi attirarono la nostra attenzione passandoci davanti accompagnate dai diversi canti dei due equipaggi di rematori. Era il sistema ch'essi utilizzavano per meglio seguire il ritmo della voga, marcato da quello delle loro canzoni. In questo caso, era la nave gialla che cercava di attaccarne una azzurra, mentre quest'ultima cercava di sottrarsi al pericolo con la fuga. I due equipaggi si affrontavano dunque in una sfida di velocità. Ma la prora dei Persiani si avvicinava sempre più pericolosamente al timone di dritta degli Ateniesi. Infine la nave gialla spezzò quel timone e, dopo qualche altro vigoroso colpo di voga, iniziò a risalire lungo la fiancata dell'unità azzurra. Tutti i rematori di sinistra avevano alzato i loro remi in posizione verticale, mentre gli avversari cercavano invano di proseguire la loro voga, facendo così frantumare i propri remi uno dopo l'altro. L’ingaggio si concluse dunque con un arrembaggio, che permise ai classiari gialli di impadronirsi della nave azzurra.
Quella era, secondo quanto diceva Gaio, il modo di vincere che i Romani avevano sempre prediletto: arrembare le navi nemiche per catturarle con tutto il loro equipaggio, anziché perdere troppo tempo con le raffinate schermaglie delle manovre per lo speronamento, che consentivano di vincere solo a prezzo della perdita della nave avversaria e di gran parte dei suoi uomini.

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V. La quinquereme Victoria

In fondo alla banchina delle navi da guerra, dopo le triremi e le grandi quadriremi, un poco più in disparte, si trovava la maggiore unità della flotta, la quinquereme Victoria [5], che era la prestigiosa nave « pretoria » (praetoria navis), sede del comandante in capo.
Era una nave imponente, che superava ampiamente tutte le altre in tutte le sue dimensioni. L'albero maestro era stato alzato, così come l'albero di prora, o dolone [6], mentre tutti gli innumerevoli remi erano stati ritirati nello scafo. Vista dalla banchina, ciò che colpiva maggiormente era la maestà della poppa, laddove si trovava l'alloggio del comandante della flotta e la cabina destinata all’imperatore quando questi si imbarcava.
Elicone ammirava la ricchezza e la raffinatezza delle decorazioni che vi si trovavano: i dipinti, gli stucchi ed i bronzi. Tutto vi era accuratamente conservato e perfettamente lucidato. Ai due lati della poppa, sotto all'alto aplustre, era raffigurata una stupenda Vittoria alata in piedi su di una prora rostrata, simbolo delle vittorie navali che avevano reso possibile l'instaurazione della pace di Augusto.

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VI. La trireme Vesta

A bordo della trireme Vesta [7], dopo aver fatto riporre alcuni cofanetti personali nella piccola cabina che era stata messa a disposizione di Gaio, seguimmo il comandante Concordio. Quest'ultimo voleva infatti effettuare un giro d'ispezione nella nave prima della partenza, per accertarsi di persona che tutto fosse pronto per una navigazione nel cattivo tempo, ed egli ne approfittò per far visitare la sua nave a Gaio.

Dalla poppa passammo direttamente a centro nave, rimanendo sul ponte di coperta, poiché il comandante doveva innanzi tutto verificare come fossero state preparate le vele dell'albero di maestra. Dalle conversazioni molto tecniche ch’egli ebbe con i suoi sottoposti, comprendemmo che avremmo dovuto navigare nella burrasca con il vento favonio [8] (d’altronde era stato proprio Gaio ad insistere per una partenza senza ritardi, nonostante il maltempo): a causa del vento molto intenso, avremmo utilizzato delle vele molto più piccole del solito, per evitare di farle strappare o di subire dei danni ancor peggiori all'albero o alla stessa nave. Nel contempo il comandante faceva regolare più finemente le sartie, tenuto conto dello sforzo ch'esse avrebbero dovuto sopportare. Egli si assicurò infine che i marinai avessero sistemato le loro asce ben fissate vicino all'albero, in modo da poter velocemente tagliare le sartie ed abbattere perfino l'albero in caso di pericolo estremo. Questo apparve di pessimo augurio agli occhi di Elicone, mentre Gaio mostrò un sorriso compiaciuto.
Delle analoghe considerazioni furono espresse, quando giungemmo a prua, per la vela di dolone e per l'omonimo albero. Concordio volle anche verificare lo stato delle ancore ed ordinò di portare in coperta un'altra ancora di rispetto.

Scendemmo poi sotto al ponte di coperta e, dopo aver visitato la cala di prua, tornammo verso poppa percorrendo la corsia centrale, che passa fra i banchi dei rematori. Lì il comandante presentò Gaio all’equipaggio, che rivolse al giovane Cesare un'acclamazione gioiosa. Concordio raccomandò poi a tutti i suoi uomini di verificare con la massima attenzione che tutto fosse accuratamente rizzato e che non vi fosse alcun oggetto in abbandono, poiché esso avrebbe potuto trasformarsi in un pericolosissimo proiettile durante la navigazione nel mare agitato.
In fondo, verso poppa, visitammo rapidissimamente le cucine, alcuni piccoli alloggi ed qualche cala dall'odore nauseabondo, prima di risalire sulla poppa, ove tutto era pronto per la partenza.

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VII. Navigazione a vela da Miseno a Capri

Sotto l’effetto della pressione del vento, la nave si era sensibilmente inclinata a sinistra, ma manteneva tale assetto abbastanza stabilmente, senza troppo risentire del rollio che le onde provenienti da ponente cercavano di imprimerle. Elicone vedeva dunque questi spaventosi marosi che si lanciavano uno dopo l'altro verso il Vesta e che sembravano ogni volta poterlo sommergere. Tuttavia essi si frantumavano regolarmente sulla fiancata di dritta, facendo vibrare l'intero scafo, e spargendosi in una nube di goccioline che veniva immediatamente spazzata dalle raffiche del vento al di sopra del ponte di coperta.
Gaio e Concordio rimanevano in piedi al loro posto, l’uno a fianco all'altro, mantenendo una posizione perfettamente verticale nonostante il forte sbandamento del ponte, e bilanciandosi con noncuranza sulle proprie gambe per compensare il beccheggio ed i frequenti sobbalzi della nave. Quando l'acqua marina nebulizzata dall'impatto dei frangenti sullo scafo veniva spinta violentemente al di sopra della poppa, essi si limitavano a stringere le palpebre, ma senza cessare di guardare dritto davanti a loro, al di là della prora, come se non si accorgessero nemmeno di queste continue docce salate che li investivano da dritta.

Avendo avuto l’evidenza che Gaio rimaneva del tutto tranquillo e perfettamente a suo agio in una situazione talmente pericolosa, Elicone iniziò a pensare ch'egli stesso avrebbe forse potuto padroneggiare la sua paura ed il suo malessere abituandosi ai movimenti nervosi della trireme. Ma il suo morale precipitò nuovamente verso la disperazione quando sentì Gaio bisbigliare a Concordio che quella situazione « di tranquillità » stava per terminare a breve termine, poiché stavano per uscire dalla zona ridossata dalle isole di Procida ed Ischia.
In effetti, poco dopo vi fu un sensibile aumento delle dimensioni delle onde, così come dell'inclinazione della nave, del suo beccheggio e dei violenti fremiti che la scuotevano. Ma Gaio non cambiò nulla alla sua imperturbabilità, essendosi limitato a stringere un po' più forte la sua mano sul bastingaggio ove si era appoggiato e ad asciugarsi ogni tanto il viso quando l’acqua marina gli impediva di tenere gli occhi semiaperti.

La sagoma di Capri, che si vedeva in direzione delle prora fin da quando avevano doppiato capo Miseno, sembrava sempre alla stessa distanza, agli occhi dell'infelice Elicone, completamente demoralizzato e in piena crisi di pessimismo. Ma l’isola continuava invece ad ingrandirsi: si iniziava a distinguerne sempre più chiaramente le parti principali, che Concordio illustrava a Gaio. Nella zona centrale, la più bassa dell’isola, c'era il porto e l’abitato maggiore. Tutto ciò che si vedeva alla destra del porto costituiva la parte più elevata dell’isola, con una sommità che prendeva il suo nome dal sole [9]. Dall’altro lato il profilo dell’isola sembrava salire con una lieve pendenza dal porto verso l’estremità che si trovava alla nostra sinistra, cioè verso la punta orientale, che era la più prossima al continente, proprio di fronte al promontorio di Minerva [10]. Era proprio su questa estremità di Capri che dovevamo recarci, poiché era lassù che Tiberio abitava normalmente, in una villa che prendeva il nome da Giove e che era arroccata sulla falesia, ad oltre 1100 piedi di altezza al disopra del livello del mare.

Infine la trireme pervenne in prossimità del porto. Là, in una situazione di mare quasi calmo e di vento un po' più leggero, Concordio ordinò di serrare le vele e di entrare in porto a remi. Gli ci volle tutta la sua abilità per manovrare quella lunga nave in un bacino così stretto, ma riuscì in breve tempo ad ormeggiarsi in banchina, nonostante la ristrettezza del posto di cui poteva disporre fra due onerarie.
Elicone sbarcò fra i primi, ma rischiò di vomitare poco dopo aver messo i piedi a terra, quando si accorse che la banchina aveva un movimento di beccheggio e rollio ancor più molesto di quello della nave. Fu una sensazione che continuò ad affliggerlo di tanto in tanto durante il tragitto dal porto verso la villa Iovis, fino a quando la stanchezza prevalse sull'incubo del mal di mare.

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VIII. Considerazioni sull'arrivo a Capri

Oggigiorno, quando si va dal porto alla cittadina di Capri, e da questa alle rovine della villa Iovis, ci si trova, nella prima metà del percorso, quasi sempre attorniati da costruzioni e giardini di alberghi o di ville private. Dopo di che, si segue una stradina che ha alcuni punti abbastanza panoramici. Quanto alla vegetazione, l’isola è molto verde, all’interno, perché vi è un terreno molto fertile e perché vi si trovano quasi ovunque dei giardini e dei terreni coltivati. Vi è anche una vegetazione spontanea, cioè delle piante che crescono sulle rocce delle falesie e negli altri luoghi rocciosi.

In occasione della mia recente escursione nell'isola di Tiberio [8/10/2001], ho avuto la fortuna di trovarvi delle nuvole e della nebbia. Evidentemente, un pessimista l'avrebbe considerata una sfortuna, senza accorgersi dei vantaggi che potevano scaturire da quella situazione. Fra questi vantaggi, ve ne sono due abbastanza importanti.
Innanzi tutto, le nubi si sono rivelate provvidenziali durante la lunga salita verso la villa Iovis, perché ci hanno tenuto al riparo dai raggi del sole. Si tratta si un vantaggio di cui potrebbero aver fruito anche Gaio ed Elicone il giorno del loro arrivo a Capri.
Inoltre, la possibilità che vi sia una forte riduzione della visibilità fa comprendere certi aspetti che abbiamo appreso dagli storici romani ma che mi apparivano alquanto strani. Perché Tiberio avrebbe dovuto disturbarsi ad andare sul faro per vedere i segnali luminosi inviatigli dal promontorio di Minerva, mentre avrebbe potuto osservarli comodamente dalla grande terrazza semi-circolare del suo palazzo? e perché questi segnali gli furono inviati dal promontorio di Minerva e non direttamente dal faro di Miseno, che pure doveva essere altrettanto visibile dalla sua terrazza? Infine, perché i Romani hanno reputato necessario costruire il faro di Capri su di una grande torre (si presume che fosse alta una ventina di metri) su di una falesia che è già talmente alta sul livello del mare (335 m)?


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IX. Dal porto di Capri alla Villa Iovis

Dal porto, la strada saliva inizialmente verso destra, e si scorgeva lungo questo tragitto la grande villa marittima che era stata costruita dal divo Augusto. La strada proseguiva poi con alcuni tornanti prima di assumere decisamente la direzione verso levante. All'inizio essa era circondata da campi coltivati, nei quali, grazie alla fertilità del terreno, le piante crescevano le une sulle altre senza minimamente disturbarsi l'un l'altra. C'erano soprattutto degli alberi da frutta e delle vigne molto floride. Di tanto in tanto si passava davanti a qualche abitazione privata circondata da giardini. Pare che si trattasse di abitazioni costruite da liberti di Augusto che erano stati autorizzati a stabilirsi sull'isola con le proprie famiglie.

Giunti a metà percorso, la strada passava più vicino al lato meridionale dell'isola, consentendo di vedere dall'alto la baia chi si apriva sul versante opposto a quello del porto. Là facemmo una breve sosta per dar modo ai portatori di darsi il cambio e dissetarsi. Per fortuna il cielo permaneva nuvoloso, mantenendoci al riparo dai raggi del sole, che avrebbero reso ben più gravosa la nostra inerpicata lungo quella strada in salita.

Nella seconda metà del percorso, non vi era quasi più alcun campo coltivato, mentre la densità degli alberi continuava ad aumentare. Si incontravano soprattutto dei boschi di pini marittimi e di querce, qualche ulivo nei luoghi più rocciosi, ma anche molte piante ornamentali lungo la strada. Attraversando una radura, fu nuovamente possibile scorgere ancora una volta, in basso a sinistra, il panorama del lato del porto, mentre verso l'alto potemmo infine avvistare per la prima volta l’insieme dei giardini e dei boschetti che attorniavano la residenza prediletta dal principe: la villa Iovis.

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X. Considerazioni finali sulla visibilità

Come ho già detto, il giorno delle mia recente visita a Capri [8/10/2001] vi erano delle nubi che si trovavano più in basso del Monte Solaro e che arrivavano più o meno allo stessa quota della villa Iovis. Per questo motivo, arrivando sulla posizione dell'antica terrazza semi circolare della villa Iovis, mi sono visto circondato da una specie di nebbia che non permetteva di vedere assolutamente nulla nel guardare dritto verso l’orizzonte, né in direzione di capo Miseno, e nemmeno in direzione del più vicino promontorio di Minerva (punta Campanella). Vi era ovunque un velo impenetrabile, d’un colore bianco leggermente tinto d’azzurro, come un cielo brumoso. La visibilità diveniva un po' migliore guardando più in basso, verso la fine della falesia. Là si poteva appena scorgere il blu più scuro del mare, 335 metri più in basso. Ma non appena lo sguardo si allontanava di poco dalla costa, esso si perdeva nuovamente nel nulla bianco-azzurro.

Quella situazione così strana si è verificata in condizioni meteo diverse da quelle del giorno di arrivo di Gaio. Durante la mia visita, infatti, vi era un vento di scirocco (« euro » per i Romani). La presenza di questo vento e la sua direzione era perfettamente visibile quando ci si trovava al disotto della base delle nuvole, come nell'avvallamento fra la villa ed il faro. Là si vedeva distintamente, fra le cime dei pini marittimi, una specie di fumo di color grigio chiaro che sembrava sfuggire molto rapidamente dalle fronde degli alberi. Se si guardava verso l'alto senza porre attenzione ai particolari, si sarebbe detto che c'era un incendio nella direzione di provenienza del vento. Ma si trattava, ovviamente, solo di nubi.
Visto che mi trovavo sul sito della villa Iovis, questa esperienza mi ha subito ricordato il nervosismo di Tiberio quando attendeva i segnali luminosi che avrebbero dovuto pervenirgli per dargli le notizie inviate da Macrone sull’esito della rischiosa operazione per l'arresto di Seiano.

La questione della visibilità mi ha dunque consentito di riflettere sul sistema delle comunicazioni ottiche di cui l'imperatore poteva servirsi a Capri. Dato che il faro si trova più o meno alla stessa quota del palazzo, si capisce bene il motivo per cui esso venne costruito così alto. È perché doveva superare l'altezza del palazzo per poter vedere in direzione del faro di Miseno.
In effetti, è evidente che la prima e più importante linea di comunicazione dovesse essere quella con il comando della flotta di Miseno. Per questo motivo, dato che la visibilità normalmente presente nel golfo di Napoli permette di vedere agevolmente Capri da Miseno e viceversa, l’imperatore doveva necessariamente aver stabilito un collegamento diretto tra la sua stazione di comunicazioni (il faro di Capri) e quella della flotta (il faro di Miseno).

Ma allora perché egli avrebbe atteso le notizie di Macrone dal promontorio di Minerva? Perché costringere il messaggero che doveva portare questa notizia a fare tutto il giro del golfo di Napoli per giungere all'estremità di quella penisola, allorquando il messaggio che proveniva da Roma poteva raggiungere molto prima la base navale della principale flotta imperiale ed essere comunicato direttamente da tale sede all’imperatore?
Vi si potrebbe ravvedere un accorgimento di sicurezza. Ma questo non è molto convincente, perché la flotta era già stata allertata e doveva intervenire per difendere l’imperatore se Seiano fosse divenuto pericoloso. Dovremmo dunque scartare quell'ipotesi. Rimane la questione della visibilità. Se in quel periodo si fosse davvero verificato un fenomeno simile a quello cui ho assistito, la visibilità a Capri si sarebbe ridotta a zero quando la nube era sulla villa Iovis. Poco dopo, la situazione avrebbe potuto migliorare un poco, continuando ad impedire le comunicazioni a più lunga distanza (con Miseno), ma consentendole con il promontorio più vicino (quello di Minerva). Questo potrebbe spiegare il motivo di quella comunicazione apparentemente illogica.

Infine, il motivo per cui Tiberio continuava a recarsi al faro, anziché attendere i segnali sulla confortevole terrazza del suo palazzo, deve scaturire anch'esso dalle difficoltà di comunicazioni. Tali problemi mettevano evidentemente l'imperatore in agitazione e lo inducevano a verificare personalmente a che punto si era giunti, ed a impartire degli ordini diretti a coloro che erano addetti all’invio dei segnali verso Miseno e verso il promontorio di Minerva.

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Note

[1] Il porto di Pozzuoli (Puteoli per i Romani) era allora il maggiore porto del Tirreno, ruolo che dovette poi cedere al Porto Augusto, il grande complesso portuale di Roma imperiale progettato da Cesare, iniziato da Claudio, completato da Nerone e perfezionato da Traiano.

[2] Gli equivalenti moderni sono i Fucilieri di Marina, chiamati « marines » nei paesi anglo-sassoni.

[3] Una scena de tal genere è rappresentata in bassorilievo sulla Tabula Iliaca conservata nei Musei Capitolini.

[4] È ciò che si vede, ad esempio, in due affreschi conservati nel Museo Archeologico di Napoli.

[5] La quinquereme Victoria fece effettivamente parte della Flotta Misenense, di cui fu probabilmente la nave ammiraglia fino a quando non venne superata dalla esareme Opi (verosimilmente durante il principato di Gaio).

[6] Il dolone, albero di prora, era inclinato in avanti ed assolveva le funzioni del trinchetto e soprattutto del bompresso.

[7] La trireme Vesta era anch'essa una nave della Flotta Misenense. La decisione di trasportare il giovane Gaio sul Vesta, anziché fargli prendere una nave maggiore, va messa in relazione con le dimensioni del porticciolo di Capri, ove la trireme poteva manovrare più agevolmente.

[8] Favonio è il nome romano dello zeffiro, o vento di ponente. Ciò voleva dire che, non appena la trireme Vesta avesse superato il promontorio di Miseno (cioè poco dopo aver lasciato il porto), essa sarebbe stata investita « al giardinetto » (una direzione compresa fra la poppa ed il traverso della nave) dai marosi che provenivano dal largo, ed avrebbe quindi dovuto navigare fino a Capri prendendo il vento quasi al traverso. In tale situazione la nave avrebbe potuto avere una discreta velocità, ma anche delle fortissime sollecitazioni sulle vele e sugli alberi, ciò che giustifica le precauzioni assunte dal comandante.

[9] È l’attuale Monte Solaro.

[10] Attuale Punta Campanella.

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