L'EREDITA' DI ROMA

Influenza della romanità sulla nostra italianità

di  DOMENICO CARRO          

Questo testo costituisce la risposta che inviai a metà dicembre 2007 - nel FORVM di questo sito - alla seguente domanda (*) formulata da Paolo Marenco, presidente dell'associazione culturale La Storia nel Futuro:
" Domenico tu guardi al nostro passato, io lo leggo in chiave di costruzione di futuro. La mia domanda è: che ruolo ha avuto la storia e la cultura romana nel nostro essere oggi italiani (cioè: unici, diversi da tutti)? E ancora creativi, accoglienti, aperti, umili (aperti ad imparare), individualisti, pionieri....e grandi cuochi di grande cucina?? Pongo a te e ai tuoi lettori questa domanda ... mi interessano molto le risposte e le motivazioni che legano questa essenza a quel passato e quella storia. "

Ho atteso un poco ad inoltrare il mio parere per non interferire con eventuali altre risposte, ma vedo che non ne sono ancora giunte. Temo quindi che la domanda abbia creato qualche disorientamento proprio per il suo riferimento all'oggi. E' infatti innegabile che le lugubri cronache quotidiane diffondano nella società una sensazione di frustrazione e di inadeguatezza che mette a dura prova l'autostima collettiva.
L'argomento, di per sé, non è pertinente con le tematiche proprie di questo foro di conversazione, ma deve essere brevemente toccato poiché non è possibile rispondere alla domanda se non si mette a fuoco, innanzi tutto, cosa significhi essere Italiani. Questo dubbio, peraltro, è anch'esso una nostra peculiarità, visto che non potrebbe mai sfiorare né i cittadini delle altre grandi nazioni europee, né quelli degli stati minori di più recente costituzione. Ma anche questa stranezza ha un'origine antica.

Come possiamo dunque tratteggiare la nostra identità nazionale? Per dare un giudizio equilibrato occorre necessariamente sgomberare la mente da tutto quel ciarpame che quotidianamente ci viene propinato dai nostri miopi, incolti ed incoscienti "opinion makers", ostinatamente votati ad inculcarci il disprezzo verso ogni genuina espressione di italianità e la beota soggezione nei confronti delle culture altrui.
Per nostra fortuna, vi sono dei convincimenti che permangono comunque fermamente radicati nella coscienza collettiva, quali, ad esempio, la bontà della nostra cucina, ovviamente; ma anche il nostro senso della pulizia (quella individuale e quella nelle nostre case), perlomeno se raffrontato agli standard di certi popoli europei ben più spocchiosi; le nostre glorie calcistiche ed in molti altri sport (come dimenticare quello splendido nostro maratoneta, Stefano Baldini, che giunse da solo nello stadio di Atene?); i nostri bolidi vincenti, come quelli con i leggendari marchi Ferrari, Maserati, Alfa Romeo, Ducati, Aprilia, etc.; i nostri vini ed i nostri spumanti, certamente non secondi a quelli d'Oltralpe; la moda italiana, rappresentata dai grandi stilisti di fama mondiale, ma anche dalla naturale eleganza della nostra gente; lo stile italiano nel mondo, nel design industriale, nella carrozzeria delle auto e nella grande architettura, come quella dI Renzo Piano e Massimiliano Fuksas; la bellezza delle nostre donne e la bravura dei nostri artisti dalla celebrità internazionale, come la Fracci, il compianto Pavarotti, Bocelli e la Pausini; i maggiori direttori d'orchestra, come Muti e Abbado; i grandi maestri del cinema, come Fellini, Antonioni, Germi, Monicelli e Visconti; le ripetute imprese dell'alpinismo italiano, sulle più dure cime, fino al K2 ed all'Everest, anche senza ossigeno; l'efficace presenza italiana nelle principali operazioni di pace e nelle postazioni più avanzate della ricerca scientifica, in Antartide e nello spazio.
Tutte queste cose - che fanno parte del nostro patrimonio, come Totò, Carosello, la vecchia Cinquecento e la moka express - sono abbastanza conosciute e ci rappresentano in modo più completo dei soliti spaghetti, del cappuccino, della pizza, dei mandolini e della Mafia.

Ma questo non è tutto, perché sono ancor più importanti le molteplici aree di eccellenza attivamente presenti nella nostra società, cioè quelle solide e qualificanti realtà di cui si parla poco ma che operano incredibilmente bene; e ce ne accorgiamo solo di tanto in tanto, quando scopriamo, ad esempio, che, con l'imminente invio in orbita del laboratorio europeo "Columbus" (fra una ventina di giorni), più della metà dell'intera Stazione Spaziale Internazionale orbitante intorno alla Terra sarà di costruzione italiana.
Checché se ne dica, quindi, gli Italiani sono tutto questo: gente che sa impegnarsi seriamente e superare ogni difficoltà anche in mezzo a situazioni ambientali di lavoro non ottimali, e che riesce anche a raggiungere dei risultati straordinari, pur lavorando individualmente o nell'ambito di piccoli gruppi, con carenza di risorse e senza la certezza di un appropriato sostegno istituzionale.
Questa realtà odierna è perfettamente coerente con quella dei secoli passati, quando la nostra Penisola ha generato quelle straordinarie individualità che hanno regalato all'umanità le note musicali, la commedia dell'arte, l'Umanesimo, il Rinascimento italiano, il Nuovo Mondo, il metodo scientifico galileiano, il melodramma, la pila elettrica, il telefono, la radio e l'energia nucleare. Non vi è dunque alcuna esagerazione retorica nella nota frase incisa a caratteri cubitali sui quattro lati del Palazzo della Civiltà Italiana, all'EUR: "un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori".

Questa lunga premessa si è resa necessaria per poterci riferire agli Italiani reali e non a certe strampalate parodie che vengono spacciate come crude verità o utilizzate come satira a buon mercato, squalificando solo chi le propala e chi le prende per buone. Essendoci così messi in condizione di comprendere bene la legittimità ed il senso della domanda che ci è stata posta, possiamo iniziare a ragionare sulle possibili correlazioni fra il retaggio di Roma e le specificità degli Italiani odierni, in positivo ed in negativo.
La mia personale risposta, è bene precisarlo, non ha la pretesa di asserire delle verità incontrovertibili, poiché la mia effettiva competenza storica è inerente al solo settore navale e marittimo. Mi sento comunque in grado di dare un parere sufficientemente attendibile sul modo di pensare degli antichi Romani, poiché le ricerche storiche necessarie per la compilazione di "Classica" mi hanno condotto a leggere un enorme numero di opere latine e greche del mondo di Roma antica (in effetti, tutte quelle che sono risultate reperibili; in totale, vedo adesso che si tratta di 535 opere citate nella mia bibliografia, e di 245 autori antichi di cui ho riportato delle specifiche citazioni in "Classica"). Da questa lettura veloce non ho ovviamente analizzato e memorizzato tutto, ma solo le parti che erano direttamente o indirettamente utili alla mia ricerca. Dall'insieme ho comunque potuto trarre anche una discreta percezione della genuina mentalità degli autori.

Sulla base degli elementi desumibili dalle fonti antiche, risulta abbastanza evidente che, a grandi linee, tutte le virtù e tutti i vizi che ora ravvediamo negli Italiani fossero egualmente esistenti a Roma e nel mondo romano. Questo vale, ovviamente, con tutte le approssimazioni e le semplificazioni che comportano dei giudizi espressi in modo troppo generico e conciso. Non va, infatti, dimenticato che stiamo parlando delle caratteristiche di una popolazione la cui storia è stata ultramillenaria e che ha assorbito in sé buona parte delle culture incontrate nelle province di un impero che abbracciava tre continenti, oltre alle più disparate etnie, filosofie, religioni e superstizioni. D'altronde, al momento non siamo tanto interessati a distinguere le infinite mutazioni avvenute nel tempo, nello spazio e nelle varie fasce sociali di un mondo così complesso ed articolato, ma ci interessa solo sapere se le odierne caratteristiche degli Italiani siano state direttamente editate dagli antichi Romani o siano comunque imputabili in qualche modo al retaggio di Roma.
Al fine di circoscrivere ulteriormente l'argomento (perché altrimenti l'esame si estenderebbe oltremisura) mi limito ai soli aspetti specificati nella domanda:
- caratteri prevalentemente positivi: "creativi, accoglienti, aperti, pionieri .... e grandi cuochi di grande cucina";
- caratteri con possibili risvolti negativi: "unici, diversi da tutti; umili (aperti ad imparare), individualisti".
Mi auguro che, se vi saranno ulteriori interventi, questi vengano focalizzati anch'essi su questi aspetti, al fine di non disperderci in troppe direzioni.

Per la prima categoria di caratteri, confermo senz'altro il mio primo parere, cioè che li abbiamo tutti ereditati direttamente dai Romani antichi.
Esaminiamoli in ordine logico.

Accoglienti ed aperti

Qui vi è una delle peculiarità intrinseche dei Romani; questa fu la loro maggiore forza, ma questa fu anche la maggiore causa della loro vulnerabilità.
Roma è stata fondata da Romolo come una città aperta a chiunque volesse stabilirvisi. Questo concetto rimase sempre in vigore per tutti, a condizione, ovviamente, di sottomettersi alle leggi di Roma e di non costituire un pericolo per la sicurezza del popolo romano. L'accoglienza venne quindi sempre concessa a tutti, prescindendo da località di origine, lingua, etnia e religione. Gli stessi nemici che impegnavano i Romani in un confronto bellico erano destinati ad essere accolti fra gli amici ed alleati del popolo romano, poiché questo era l'epilogo normale di tutti i conflitti dopo la vittoria romana.
Tuttavia, questa connaturata voglia dei Romani di accogliere in amicizia gli ex nemici e di conferire molto presto anche la cittadinanza romana ai loro capi più rappresentativi creò delle situazioni di enorme rischio durante l'Impero, poiché questi neo cittadini non ancora intimamente romanizzati suscitarono alcune gravi sedizioni, determinando anche dei tremendi rovesci come quello - disastroso - di Teutoburgo.
Nel basso impero, poi, l'immissione nelle legioni, in forma sempre più massiccia, di barbari frettolosamente convertiti e solo virtualmente romanizzati, pose l'Impero stesso alla mercé di personaggi che non avevano assimilato praticamente nulla della civiltà romana. La stessa caduta dell'Impero d'Occidente fu causata da un ammutinamento interno capeggiato da Odoacre, che, pur appartenendo alla guardia del corpo dell’imperatore, privò quest'ultimo dei suoi poteri, senza nemmeno capire la portata del suo gesto.

Creativi e pionieri.

I Romani erano fondamentalmente dei pragmatici. Di fronte a qualsiasi impresa, di guerra o di pace, essi non agivano sulla falsariga di teorie preconfezionate, ma esaminavano la situazione caso per caso, e mettevano a punto delle linee d'azione che consentissero di conseguire lo scopo nel modo migliore, ma con il dispendio di forze strettamente necessario e con il minimo rischio.
Nel campo militare, è proprio questo quello che emerge costantemente dall'analisi delle loro battaglie terrestri e navali. Essi raggiunsero un enorme potere grazie alle loro indiscusse virtù guerriere, ma anche alla loro oculatezza nel non esporsi quando il risultato poteva essere ottenuto in altro modo (non sono infrequenti i casi di accordi sottobanco, di corruzione o di tradimenti fomentati con altri metodi). La cosa non è poi tanto sorprendente se ci si ricorda che Machiavelli diventò "machiavellico" dopo aver studiato le gesta dei Romani.
E gli Italiani? Le capacità militari degli Italiani sono state a lungo molto rinomate in tutta Europa, visto che i nostri condottieri ed i nostri eserciti erano i più gettonati. Più recentemente, superati diversi decenni di dopoguerra condizionati dal trauma della sconfitta e della guerra civile, ora sta ridiventando evidente la robusta stoffa dei nostri, la loro composta professionalità anche in situazioni di grande rischio, nonché la loro capacità di adattamento alle nuove situazioni, senza farsi irretire dagli schematismi. Nel Golfo Persico, nel1988/89, fummo i primi ad adottare la tattica più efficace per scortare le nostre navi mercantili in presenza di minaccia di mine alla deriva: all'inizio sembrò una soluzione strampalata, poi la adottarono tutte le altre maggiori marine presenti in quelle acque.
Nel campo civile, il pragmatismo romano li portò ad acquisire quanto c'era di buone nelle culture delle popolazioni alleate e delle province d'oltremare, perfezionando sensibilmente le soluzioni altrui e creando poi delle soluzioni proprie, assolutamente originali e maggiormente rispondenti alle esigenze. Lo si vede in tutti i campi delle costruzioni, terrestri (strade, acquedotti, terme, ponti, cisterne, etc.), marittime (porti, dighe foranee, moli subacquei, fari, canali navigabili, ville marittime, etc.) e navali (basti pensare alle navi di Nemi), nei vari altri prodotti dell'ingegneria (tubazioni, valvole, rubinetti, pompe, cuscinetti a sfera, ascensori, etc), nell'agricoltura, nell'itticoltura, nella medicina, nella geografia (anche attraverso diverse nuove esplorazioni), nel diritto, nella letteratura, negli spettacoli e nell'arte.
Degli Italiani non è nemmeno il caso di parlare, visto che questi sono tutti campi in cui la creatività si è mantenuta splendidamente.

Grandi cuochi di grande cucina

Il gusto dei Romani per i buoni cibi e per le ricette elaborate è molto antico, tanto che abbiamo anche dei frammenti di Ennio che ne parlano. Egualmente importante fu per i Romani la selezione dei vini migliori e la particolare cura di quelli più pregiati, come il celeberrimo Falerno. In epoca imperiale, con l'aumentare del benessere aumentò ulteriormente la ricerca delle prelibatezze più succulente, di cui ci sono pervenute celebri descrizioni. Da una tale passione per le ricette di alta cucina dell'epoca antica è evidentemente derivata la radicata nostra abitudine alla qualità del cibo e dei vini.

Per la seconda categoria di caratteri, quelli che hanno dei possibili risvolti negativi, direi che li abbiamo anch'essi ereditati tutti dai Romani, ma li abbiamo in parte accentuati proprio per effetto del retaggio di Roma.
Esaminiamoli uno per uno.

Individualisti

Nella concezione romana della società, il principale attore era l'uomo, ovvero l'individuo, e mai le grandi masse. Anche nella politica romana, le famose lotte fra il partito "popolare" e quello aristocratico non era una contesa per dare più potere al popolo nella sua globalità (ovvero come massa), ma per assicurare che dei membri della plebe potessero assurgere individualmente a quelle cariche che erano state per molto tempo prerogativa dei senatori o dei cavalieri. Dopo i Gracchi, i massimi esponenti dei cosiddetti popolari furono Mario e Cinna, seguiti poi da Cesare ed infine da Ottaviano. Tutte persone che hanno ricercato il potere per sé stessi e per i propri sostenitori, sia pure con la dichiarata volontà di andare incontro alle esigenze del popolo calpestate dalle prevaricazioni della classe senatoria.
I Romani erano dunque degli individualisti. Alcuni di essi non esitarono nemmeno a mettersi in contrasto perfino con la propria Patria quando si sentirono offesi nella propria onorabilità individuale: i casi più clamorosi sono quelli di Coriolano, rifugiatosi presso i Volsci, Mario, in Africa, e Sertorio, in Spagna.

Umili (aperti ad imparare)

Qui si può vedere, da un lato, un altro aspetto di quel pragmatismo di cui si è già parlato, e dall'altro una curiosità intellettuale tale, da attribuire maggiore importanza all'informazione ricercata rispetto alla dubbia soddisfazione non doversi mostrare bisognoso di spiegazioni. In effetti i Romani non avevano alcuna difficoltà a richiedere l'insegnamento altrui quando questo risultava più produttivo. Se riuscivano ad acquisire sufficienti informazioni per poter fare le cose in proprio e possibilmente migliorarle, lo facevano. Altrimenti continuavano a servirsi di insegnanti non Romani. Questo fece la fortuna dei Greci, che sapevano "vendere" bene le proprie conoscenze teoriche.
Nel caso dei Romani, tuttavia, non mi sembra del tutto appropriato parlare di umiltà, poiché questo non era un atteggiamento da essi concepibile. Forse per essi si trattava piuttosto di indifferenza.
Negli Italiani vi è certamente la stessa apertura ad imparare. Non so se potremmo definirla davvero umiltà (che ha un sapore di remissività e di subordinazione) o di semplice realismo e mancanza di spocchia.

Unici, diversi da tutti

I Romani lo erano per mentalità. Non si trattava ovviamente né di luogo d'origine, né di etnia, né di filosofia o religione. Chiunque, da qualsiasi parte provenisse, quando diventava romano assumeva quella mentalità. Questa mentalità era fondamentalmente universalista: il Romano si sentiva innanzi tutto cittadino del mondo, anche se privilegiava Roma e l'Italia ed avrebbe dato la vita per esse.
L'Italia, in effetti ebbe fin dall'inizio uno status particolare. Non venne mai considerata una "provincia" di Roma, ma una sorta di estensione dell'area di residenza dei Romani o delle loro gite fuori porta, come diremmo oggi. Questo comportò molto presto (per effetto della guerra Sociale) l'estensione della cittadinanza romana all'intera Penisola. Nel periodo dell'Impero, la distinzione fra Romani ed Italici finì per scomparire.
Dopo la caduta dell'Impero d'Occidente, il relativo territorio divenne preda di vari regni barbarici. Mentre questi regni, lottando fra di loro, iniziarono ad esaltare gli egoismi "nazionali" ed a forgiare in tal modo i primi abbozzi delle identità delle future nazioni europee, gli Italiani rimasero refrattari a tale processo, permanendo influenzati da quell'universalismo che li rendeva indifferenti al colore delle bandiere che transitavano sul loro territorio. Questo atteggiamento di fondo è rimasto in gran parte presente in tutti i secoli di dominazione straniera, ma non è stato nemmeno rimosso dopo l'unità d'Italia. Nonostante il patriottismo, certamente molto forte soprattutto nel periodo risorgimentale, quel radicato universalismo costituisce pur sempre la base della nostra mentalità. Questa unicità non è certamente un demerito, ma rappresenterà pur sempre una pericolosa vulnerabilità fintanto che negli altri paesi europei permarranno forti gli egoismi nazionali.

(*) Messaggi di riferimento
La domanda, originariamente formulata nell'ALBVM del sito (annotazione CLXXIV del 12/12/2007), era stata da me girata in pari data al FORVM con il messaggio n° 1370. La mia risposta è invece stata inoltrata con i seguenti due messaggi successivi: messaggio n° 1372, del 14/12/2007, e messaggio n° 1374, del 15/12/2007.


Paolo Casolari, Roma dentro,
MMC Edizioni, Roma, 2013

Nota finale
Ho ricevuto il 24 luglio 2013 la segnalazione del libro "Roma dentro", che ha per sottotitolo "saggio di costume sulla Romanità antica e sui suoi riflessi nell'Italia di oggi". Lo leggerò con interesse, perché mi sembra che esso tenda a dimostrare la diffusa presenza dell'eredità di Roma nella nostra Italia contemporanea, in vari e multiformi aspetti, dai più noti a quelli pressoché ignoti ai più.
Riporto di seguito due brevi stralci della descrizione che mi è pervenuta:
Come dividiamo il tempo, quali nomi diamo ai giorni, perché abbiamo l’ossessione per l’acqua, dove nascono i nostri simboli e i colori della nostra bandiera, i confini delle nostre regioni, la provenienza dei nostri nomi, i gesti quotidiani, la sfortuna di alcuni numeri, gli eroismi dimenticati, ma anche certi vizi.
Tutto questo è ROMA DENTRO, nuovo saggio di costume che svela lo spirito pagano di Roma nel nostro quotidiano. Scritto dal giornalista modenese Paolo Casolari, ...

[...]
Completano le trecentoventi pagine del saggio, reperibile su www.romadentro.it, un contributo dello scrittore Giandomenico Casalino sul legame arcano tra Roma e ltalia, un calendario delle ricorrenze parallele in 150 anni d’Italia unita, in 1500 anni di devozione cattolica e in 1200 anni di Romanità classica, gli elenchi dei nomi italiani d’origine latina e delle città italiane, già municipi romani.

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