Strenna dei Romanisti 2013
presentata dal Gruppo dei Romanisti al Sindaco di Roma
in occasione della celebrazione del Natale di Roma in Campidoglio
Roma, 21 aprile 2013

MARITTIMITÀ ROMANA

  di DOMENICO CARRO  

SOMMARIO

© 2013 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home


Area attorno al Palatino nel VIII sec. a.C.
(da G. Cozzo [8]; rielaborazione D. Carro)

Quando Romolo prescelse il colle sul quale fondare la Città Eterna, quel sito era immerso in uno scenario spiccatamente acquatico, del tutto simile a quanto Tito Livio ci ha descritto parlando della leggendaria esposizione dei due gemelli [1]. Lo storico ab Urbe condita precisa infatti che la cesta con i neonati figli di Rea Silvia venne abbandonata vicino al bordo della palude formata dalle acque del Tevere, laddove queste lambivano il Palatino, in un punto ancora riconoscibile in epoca augustea per la presenza del Fico Ruminale. Gli antichi Romani sapevano che non era stata un’anomala piena del fiume a provocare quello straripamento: si trattava di un allagamento cronico, che alimentava delle paludi permanenti – non guadabili a piedi – nelle depressioni vallive attigue all’ansa immediatamente a sud dell’isola Tiberina [2]. Questo concorde convincimento delle fonti antiche è stato accolto senza difficoltà da tutti gli studiosi successivi, fino all’epoca moderna [3].

Il carattere palustre della predetta area nel VIII secolo a.C. risulta inoltre comprovato dalla geologia [4] e dall’archeologia [5]. Nella nascente Roma, in effetti, i tre più occidentali dei sette colli erano in origine bagnati e reciprocamente separati dalle acque del Tevere, abbondantemente spanse nel Velabro e nella valle Murcia. Il Palatino, in particolare, dalla sua posizione centrale dominava l’area pianeggiante compresa fra le sue pendici occidentali e l’ansa del fiume [6], consentendo di esercitarvi in via esclusiva il controllo delle peculiari e redditizie attività che vi si svolgevano fin dall’epoca protostorica: sulla riva, il fiorente commercio del sale – destinato alla Sabina [7] – e delle altre merci che affluivano in quel privilegiato nodo di traffico [8]; sul fiume, il lucroso servizio di traghetto di uomini e merci fra la riva latina e quella etrusca. Tale servizio poteva infatti sfruttare le favorevolissime condizioni presenti in quello specifico punto, ove il sensibile rallentamento della corrente consentiva l’attraversamento in sicurezza di zattere e chiatte con carichi pesanti, mentre l’espansione delle acque a ponente dell’ansa aveva creato un ancoraggio naturale [9] per i mezzi navali adibiti a traghetto, per altri natanti e per eventuali navi giunte colà per motivi di commercio.

Grazie alla singolare posizione strategica del Palatino, affacciato su quello che era allora il più importante crocevia della nostra Penisola, la nuova città attrasse dalle regioni confinanti “una turba indiscriminata – di uomini liberi e di schiavi – avida di novità” [10]. Questo fu, secondo Livio (e nulla ci induce a dubitarne), il nucleo originario del popolo Romano: una moltitudine composita e socialmente eterogenea, che non includeva principalmente contadini e pastori [11], secondo il trito stereotipo, ma gente di ogni provenienza, inclusa una discreta percentuale di avventurieri, trafficanti e fuorilegge. Si trattava dunque di una popolazione che assommava in sé una gamma di esperienze ben più ampia e variegata di quanto acquisibile nell’idilliaco ambito rurale, essendo pertanto perfettamente predisposta a cogliere e valorizzare le inconsuete opportunità che si aprivano in quel nuovo e promettente contesto.

I primi Quiriti iniziarono quindi ad esercitare il loro ruolo di cittadini romani stando praticamente con i piedi nel Tevere ed avendo davanti agli occhi, quale spettacolo più abituale e familiare, proprio l’ampia distesa di quelle acque e le relative scene navali. È abbastanza logico attribuir loro anche la consapevolezza del collegamento immediato di quelle stesse acque con il mare, visto che gli Etruschi – da cui essi trassero conoscenze e costumi – gestivano delle intense attività navali nel Tirreno. In ogni caso, non appena i Romani assunsero il controllo delle rive del breve corso del fiume a valle della città, essi fondarono la loro prima colonia proprio alla foce, ovvero sul primo lembo di costa marittima da essi posseduto.


Le foci del Tevere dal VII sec. a.C. ad oggi
(da P. Bellotti [15]; rielaborazione D. Carro)

La tradizione attribuisce la fondazione di Ostia al quarto re di Roma, Anco Marzio (640-616 a.C.), che vi realizzò anche le saline [12]. Di questa prima colonia dell’età regia l’archeologia non ha finora trovato alcuna traccia, per il semplice motivo che la foce del fiume si era recentemente spostata [13], portandosi in prossimità dello stretto cordone litoraneo che divideva lo Stagno di Ostia dal mare. In quella posizione il terreno era ancora troppo esiguo ed instabile per potervi edificare delle consistenti strutture urbane. La primissima Ostia dovette dunque essere solo un avamposto [14] utile per controllare l’accesso marittimo all’Urbe ed anche per dotarla di proprie saline, anziché dipendere da quelle dello Stagno di Maccarese, che erano in mano etrusca. Sappiamo infatti che pochi anni dopo, intorno al 600 a.C., lo Stagno di Ostia fu improvvisamente invaso dall’acqua di mare ed ebbe, solo a partire da quel momento, una componente salina. È possibile (ed anche abbastanza verosimile) che la rottura del cordone litoraneo sia stata deliberatamente provocata dai Romani [15], che poi allestirono e sfruttarono le saline ostiensi. È comunque interessante notare che l’ampio specchio d’acqua messo in comunicazione con il mare doveva risultare anche idoneo ad essere in parte sfruttato come ancoraggio di fortuna.

Prescindendo dalla pur elevata valenza economica delle nuove saline, la finalità primaria della fondazione di Ostia fu evidentemente quella di fornire a Roma un accesso sicuro al mare, creando uno scalo “per le grandi navi e per i marinai che sul mare si procacciano da vivere” [16]. Proprio in quegli anni l’ancoraggio ostiense accolse le navi dei Focesi che si trasferivano verso la costa meridionale della Gallia per fondarvi Marsiglia. In tale occasione questi Greci strinsero con i Romani un legame di amicizia ed alleanza destinato a permanere saldissimo, grazie al costante sostegno fornito dai Marsigliesi agli impegni bellici di Roma [17]. Le altre navi che dovevano approdare normalmente ad Ostia erano di certo quelle impiegate per i traffici marittimi diretti all’Urbe [18].


Il Portus Tiberinus in età arcaica
(da F. Coarellii [5]; rielaborazione D. Carro)

L’ormeggio di queste navi a Roma si semplificò nel corso del VI secolo a.C., quando la bonifica delle paludi dei Velabri – con la costruzione della Cloaca Maxima – venne portata a termine, lasciando a ponente dell’isola Tiberina quella profonda insenatura che costituì il Portus Tiberinus, cioè il primo vero e proprio porto fluviale della città. L’insenatura, la cui forma ed estensione risulta comprovata dall’orientamento degli antichissimi templi eretti attorno ad essa e dal percorso aggirante della Cloaca Maxima [19], fu completamente interrata solo in epoca augustea, quando le incessanti operazioni di carico e scarico delle navi fluviali si svolgevano nel modo migliore presso le ben più ricettive strutture portuali dell’Emporium.

L’Urbe possedeva dunque, già in epoca regia, un sistema portuale fluviale-marittimo unito da un breve tratto di fiume strettamente controllato fino alla foce. Questa felice situazione indusse gli antichi a valutare che Roma godesse fin dalle origini di tutti i vantaggi di una città marittima senza averne i difetti (Cicerone), potendo beneficiare del commercio marittimo pur senza essere esposta alle incursioni provenienti dal mare (Livio), e che la fondazione di Ostia avesse fatto di Roma una città marittima (Dionigi di Alicarnasso), predisponendola a ricevere viveri e ricchezze da tutto il mondo (Floro) [20].

Poiché queste considerazioni, ancorché riferite al periodo regio, sono state formulate molti secoli dopo, viene normalmente da pensare che i rispettivi autori avessero espresso opinioni più influenzate dalla mentalità corrente che non dalla conoscenza di quell’epoca arcaica. In effetti abbiamo sempre la presunzione di poter giudicare il mondo antico con maggior cognizione di causa di quanto potessero farlo i contemporanei. Eppure questi ultimi disponevano di documenti storiografici molto più remoti, che non ci sono pervenuti. Per i periodi anteriori, questi ultimi testi avevano a loro volta potuto beneficiare di altre fonti precedenti a noi precluse, quali gli Annales Maximi, il materiale epigrafico, i riti religiosi e la trasmissione orale, le cui sempre possibili distorsioni erano comunque alquanto limitate dal “controllo del gruppo sociale”[21] . Va peraltro riconosciuto che i dati essenziali tramandati dalla storiografia romana sulle epoche più arcaiche hanno finora ricevuto sempre maggiori conferme dall’archeologia e dalle altre discipline ad essa collegate.

Alla caduta della monarchia, i Cartaginesi stipularono con la neonata repubblica un importante trattato navale, “la cui datazione nell'ultimo quarto del VI secolo non dovrebbe più oggi sollevare dubbi” [22]. Si tratta infatti di un documento del tutto coerente con gli accordi bilaterali che i Punici stipulavano a quell’epoca con varie città etrusche e che consistevano, secondo l’autorevole testimonianza di Aristotele (ipse dixit!), in “convenzioni a tutela della sicurezza e trattati di alleanza per la mutua difesa ... allo scopo di premunirsi da qualsiasi danno reciproco” [23]. Nel caso del trattato con i Romani, il cui testo originale in latino arcaico è stato reperito da Polibio [24], vi sono soprattutto dei vincoli ai movimenti delle navi da guerra romane, cui era interdetto il golfo di Cartagine, e qualche restrizione meno drastica per le onerarie romane che approdavano in Africa, in Sardegna ed in Sicilia, mentre veniva riconosciuto che la costa laziale ricadeva nella sfera d’influenza di Roma. In pratica questo documento, oltre ad evidenziare lo squilibrio fra l’embrionale potenza romana e lo strapotere navale cartaginese nel Mediterraneo occidentale, denota una certa attenzione punica nei confronti del naviglio di Roma, che includeva già delle unità da guerra ed i cui mercantili si spingevano fino alla costa nordafricana.

L’utilizzo di navi da parte dei Romani nei primi decenni della repubblica è stato anche menzionato dalle fonti per sottolinearne l’indispensabilità nel fronteggiare situazioni di estrema emergenza, quali lo stato d’assedio e le più gravi carestie [25]. Ciò corrisponde d’altronde ad un’esigenza costante in tutta la storia dell’antica Roma: quella “necessità” di navigare (efficacissimamente espressa dalla celebre esclamazione di Pompeo Magno [26]) che i Romani hanno provato sia nell’epoca arcaica, quando la città circondata da popolazioni ostili dovette importare per via marittima i propri rifornimenti vitali, sia nelle epoche dell’espansione e dell’impero, poiché la crescita dell’Urbe comportò un’ininterrotta sua dipendenza dagli approvvigionamenti provenienti dalle regioni d’oltremare.

Rimane infine da capire quali fossero le prime navi utilizzate dai Romani e come facessero quei natanti a risalire il Tevere prima che fosse istituito il complesso servizio di rimorchio delle navi fluviali (codicarie) con i buoi da traino che procedevano lungo la riva sinistra. In realtà nessuno sa quando tale antichissimo servizio [27] entrò in funzione, perché nessuna fonte classica ne ha mai parlato [28]. In assenza di un rimorchio, sarebbe stato molto difficile ad una nave da carico percorrere controcorrente tutti i meandri del Tevere fino a Roma con la sola propulsione velica; per contro vi riuscivano le navi dotate di remi come quelle da guerra e certe onerarie arcaiche. Nel VI e V secolo a.C., inoltre, erano sempre in uso nel Mediterraneo le versatili pentecontore: navi da 50 remi disposti su di un solo ordine, originariamente concepite come unità da guerra e poi adattate ad altri compiti quando furono surclassate dalle triremi. Sappiamo da Erodoto [29] ch’esse furono usate dai Focesi per le loro lunghe navigazioni. Esse continuarono poi ad essere apprezzate [30] come mezzo di trasporto celere di personale o materiale, essendo sufficientemente veloci [31] per eludere gli attacchi dei pirati e idonee a risalire il corso dei fiumi.
Queste potrebbero pertanto essere state fra le prime navi che i Romani fecero ormeggiare nel Portus Tiberinus, per scaricare le merci importate e caricarvi quelle destinate all’esportazione. Abbiamo infatti la certezza che Roma abbia posseduto delle proprie pentecontore, visto che un esemplare di questo tipo di unità fu gelosamente conservato in una sorta di sacro museo navale situato sulla riva meridionale del Campo Marzio, laddove c’erano i Navalia, la base navale cittadina. Quell’eccezionale cimelio, accuratamente sottoposto a continue manutenzioni nel proprio sacrario, si trovava ancora lì nel VI secolo d.C., venerato come “la nave di Enea”, quando venne esaminato da Procopio di Cesarea, giunto a Roma al seguito delle truppe bizantine nel corso della Guerra Gotica [32].

Abbiamo fin qui delineato per sommi capi quale possa essere stato il rapporto fra i Romani dell’epoca arcaica ed il mare: dagli scarni dati in nostro possesso, tutto lascia capire che si trattò fin dall’inizio d’un rapporto molto stretto, tanto che – come si è detto – nell’antichità l’Urbe fu considerata funzionalmente equivalente ad una città marittima [33]. Per le nostre valutazioni conviene però andare oltre questa categorizzazione generica, riferendoci invece al concetto di marittimità, nel suo significato più ampio. In particolare, se ci si limita alla geografia fisica, la marittimità viene normalmente definita [34] come il carattere marittimo di un territorio. Se invece si considera, oltre a quella fisica, anche la geografia umana, per marittimità dobbiamo necessariamente intendere il carattere marittimo dello Stato nella sua interezza (territorio, popolazione, economia, infrastrutture, ecc.), e dunque anche la familiarità della relativa popolazione con l'ambiente marittimo e con la navigazione. Sotto quest’ottica dobbiamo riconoscere che la marittimità di Roma fu apprezzabile fin dalle più lontane origini della città e diventò elevata dopo la fondazione di Ostia, ancora in epoca regia, quando i movimenti del naviglio utilizzato dai Romani iniziarono ad attirare l’attenzione della “superpotenza” navale punica.

Se continuassimo ad esaminare la millenaria storia navale e marittima dell’antica Roma, troveremmo un numero di navi progressivamente crescente, una prima squadra navale nel IV sec. a.C. e delle flotte poderose a partire dal secolo successivo; troveremmo anche una serie impressionante di combattimenti navali contro le maggiori ed espertissime potenze navali del Mediterraneo, con l’immancabile successo finale delle navi romane, divenute imbattibili anche sul piano prettamente marinaresco; troveremmo quindi due secoli di espansione oltremare, con l’uso delle flotte per lo sbarco su tutte le sponde e le isole di quello che doveva diventare il Mare Nostrum; troveremmo dunque un impero genuinamente marittimo, interamente disteso intorno a questo “mare immenso” [35]; troveremmo, in definitiva, un mare felice, che per oltre quattro secoli rimase pacificato e bonificato della pirateria, accuratamente controllato dalle navi e dalla legge di Roma, e pertanto godibilissimo, brulicante di attività navali – commerciali, pescherecce e lusorie – ed attorniato da porti, moli, fari, peschiere e splendide ville marittime.

Questo straordinario risultato, che non era mai stato nemmeno immaginato prima dei Romani, non è mai più stato conseguito, dopo di essi, da alcun’altra grande potenza navale al mondo. Eppure permane piuttosto tenace il tarlo del preconcetto secondo cui i Romani rimasero sempre condizionati dalla loro (presunta) avita rusticità, aliena dal mare e dalla navigazione [36]. Perdurando tale sospetto, il dominio di Roma sul mare continuerebbe ad essere sottovalutato alla stregua di un’anomalia casuale – quasi fosse un accidentale effetto collaterale dell’espansione oltremare (anziché esserne stato l’indispensabile propulsore) –, se non si ponesse una minima attenzione anche alle più remote origini della marittimità romana.

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Note:

[ 1] Liv. 1, 4.

[ 2] Marco Terenzio Varrone accenna alle paludi dei due Velabri (maggiore e minore), precisando che essi venivano attraversati dalle barche che traghettavano i passeggeri a pagamento (Varro ling. 5, 44 e 156). Analoghi accenni alle antiche paludi, alle barche ed ai relativi nocchieri sono presenti anche in epoca augustea (Tib. 2, 5, 33-34; Prop. 4, 9, 5-6; Ov. fast. 6, 405-414).

[ 3] Cfr. R. Venuti, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichità di Roma - Parte prima, Roma 1763, pp. 1-2; F. Nardini, Roma antica, Tomo II, Roma 1838, p. 249; A. Nibby, Roma nell'anno MDCCCXXXVIII, Parte I - Antica, Roma 1838, pp. 3 e 44-46.

[ 4] A. Verri, Sulla natura del terreno di Roma a sinistra del Tevere, in “Bollettino della Società Geologica Italiana”, 28 (1909), 1, pp. 191-195.

[ 5] I percorsi delle vie più antiche costeggiavano le pendici dei colli ai lati delle paludi: F. Coarelli, Il Foro Boario, Roma 1992, p. 34.

[ 6] L’area di mercato – Foro Boario ante litteram – era strettamente connessa al più antico pomerio della città (Tac. ann. 12, 24, 2).

[ 7] Merce avviata lungo l'antichissima via Salaria (Plin. nat. 31, 89; Fest. p. 436 L), che iniziava probabilmente proprio in quell'area: F. Coarelli, Il Foro … cit., pp. 107-111.

[ 8] G. Cozzo, Il luogo primitivo di Roma, Roma 1935, pp. 7-8, 135 e 187.

[ 9] Id., ibid., pp. 135-136; F. Coarelli, Il Foro … cit., pp. 23 e 236-237.

[10] Liv. 1, 8.

[11] Attorno al Palatino non vi erano nemmeno dei terreni idonei per coltivare quanto necessario alla città (Strabo 5, 3, 2), né per assicurare dei pascoli soddisfacenti (G. Cozzo, Il luogo … cit., pp. 5-6). 

[12] Cic. rep. 2, 18; Liv. 1, 33, 9; Plin. nat. 31, 89.

[13] Prima del VII sec. a.C. il fiume sfociava “nei pressi dell’attuale alveo di Fiumicino”: C. Giraudi, C. Tata, L. Paroli, Carotaggi e studi geologici a Portus: il delta del Tevere dai tempi di Ostia Tiberina alla costruzione dei porti di Claudio e Traiano, in “The Journal of Fasti Online”, 80 (2007), p. 3.

[14] F. Di Rita , A. Celant, C. Conati Barbaro, Interazioni tra clima, ambiente e uomo nell’evoluzione olocenica del delta del Tevere: dati paleobotanici e ritrovamenti archeologici, in “Rendiconti Online della Società Geologica Italiana”, 18 (2012), pp. 21-22.

[15]P. Bellotti, G. Calderoni, F. Di Rita, M. D’Orefice, C. D’Amico, D. Esu, D. Magri, M. Preite Martinez, P. Tortora, P. Valeri, The Tiber river delta plain (central Italy): coastal evolution and implications for the ancient Roman Ostia settlement, in “The Holocene”, 21-7 (2011), pp. 1114-1115

[16] Frammento sulla fondazione di Ostia, dagli Annali di Ennio (Fest. P. 259 M).

[17] Iust. 43, 3,4; Solin. 2, 51. Lo stesso Giustino riferisce che i Marsigliesi aiutarono attivamente i Romani in tutte le guerre (Iust. 43, 5, 3).

[18] F. Coarelli, Il Foro … cit., p. 120.

[19] Il Tempio di Portuno dominava la banchina meridionale; quelli di Fortuna e Mater Matuta erano a nord-est. Cfr. F. Coarelli, Il Foro … cit., p. 242.

[20] Cic. rep. 2, 5; Liv. 5, 64; Dion. Hal. ant. 3, 44, 1-4; Flor. epit. 1, 4, 2.

[21] E. Gabba, Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, pp. 24-26.

[22] M. Pallottino, Storia della prima Italia, Milano 1994, p. 102.

[23] Aristot. pol. 3, 10,1280a.

[24] Pol. 3, 22.

[25] Eventi degli anni 508 (Dion. Hal. ant. 5, 26, 3-4), 492 e 491 a.C. (Liv. 2, 34).

[26] Plut. Pomp. 50.

[27] Se ne presume l’antichità perché Seneca fa derivare la denominazione delle navi codicarie ex antiqua consuetudine (Sen. brev. 13, 4).

[28] Ne abbiamo solo la descrizione redatta da Procopio in epoca altomedievale, quando il servizio era rimasto funzionante sulla riva destra (Proc. B.G. 1, 26, 2).

[29] Hdt. 1, 163.

[30] Anche in Italia (Pol. 1, 20, 14).

[31] Veloci come le liburne, ma meno delle triremi (Zos. 5, 20).

[32] Proc. B.G. 4, 22, 2-3; F. Coarelli, Il Foro … cit., pp. 123-127.

[33] Precedente nota 20.

[34] Dizionario Enciclopedico Italiano, Roma 1970.

[35] Cic. prov. 31.

[36] Un analogo pregiudizio influenzò anche qualche antico Greco. Ad esempio, Polibio era convinto che i Romani avessero avuto solo nel 260 a.C., durante la I Guerra Punica, la prima esperienza di utilizzo di una propria flotta da guerra (Pol. 1, 20, 8), mentre essi già operavano in mare con una squadra navale fin dal IV sec. a.C. (Liv. 8, 13-14; 9, 30 e 38; Theophr. h. plant. 5, 8).

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Abbreviazioni delle fonti antiche citate

Aristot. pol.Aristotele, Politica
Cic. prov.Cicerone, De provinciis consularibus
Cic. rep.Cicerone, De re publica
Dion. Hal. ant.Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae
Flor. epit.Floro, Epitomae
Fest.Festo, De verborum significatu
Hdt.Erodoto, Historiae
Iust.Giustino, Historiarum philippicarum epitoma
Liv.Livio, Ab Urbe condita
Ov. fast.Ovidio, Fasti
Plin. nat.nat.Plinio il Vecchio, Naturalis historia
Plut. Pomp.Plutarco, Pompeius
Pol.Polibio, Historiarum libri
Proc. B.G.Procopio, Bellum Gothorum
Prop.Properzio, Elegiae
Sen. brev.Seneca, De brevitate vitae
Solin.Solino, Collectanea rerum memorabilium
StraboStrabone, Geographica
Tac. ann.Tacito, Annales
Theophr. h. plant.Teofrasto, Historia Plantarum
Tib.Tibullo, Elegiae
Varro ling.Varrone, De lingua latina
Zos.Zosimo, Historia nova


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