Rivista bimestrale Voce Romana
n° 30 - novembre-dicembre 2014

Sulle onde della Storia Romana (XII)


Mare commune omnibus


di DOMENICO CARRO


Dominio del mare è la locuzione italiana mediante la quale si indica il risultato ottimale conseguito dal potere marittimo, ovvero la facoltà di utilizzare liberamente il mare per i propri fini e di interdirne l’uso a qualsiasi forza nemica. I Romani, come sappiamo, erano pervenuti ad assicurarsi permanentemente tale potere sovrano sul mare (essi lo chiamavano esattamente come noi: imperium maris) con la vittoria navale di Azio, che consentì ad Ottaviano Augusto l’instaurazione della pace – celebrata come Pax Augusta – e dell’Impero.

Questa enunciazione di un risultato storicamente eccezionale contiene due parole che potrebbero evocare, nella mente di molti lettori, dei sottintesi arbitrari ed impropri: dominio, espressione che richiama alla mente l’idea della dominazione di una parte sopraffattrice su di una parte sopraffatta, e pax, vocabolo che viene oggigiorno spesso usurpato attribuendogli il significato di imposizione militare di una soluzione unilaterale per sedare una crisi internazionale o un conflitto in atto.

Il rischio di incorrere in tali distorsioni semantiche deriva dalla tendenza ad uniformare il giudizio storico a certi radicati convincimenti sulle prevaricazioni commesse dai Romani nei confronti delle popolazioni sottomesse. A riprova di tale presunto misfatto, vengono spesso citati due fra i più autorevoli storici romani: Sallustio, da cui proviene la durissima frase “I Romani hanno una sola ragione, peraltro molto antica, di muovere guerra alle nazioni, ai popoli, a tutti i re: un’insaziabile cupidigia di dominio e di ricchezza” (Historiae, Epist. Mithr. 5), e Tacito, autore dell’ancor più agghiacciante proposizione: “Dove hanno fatto il deserto, quello chiamano pace” (Agricola, 30). Si tratta in effetti di due inequivocabili asserzioni di condanna del comportamento dei Romani nei confronti degli altri popoli. Esse vengono pertanto presentate come testimonianze storiche talmente attendibili da costituire delle inconfutabili prove dei crimini commessi dai Romani nel perseguimento di odiose ed immorali finalità di dominazione.

Eppure, anche in questo caso, siamo in presenza di una bufala, sia perché quei giudizi non corrispondono affatto alla realtà storica, sia perché essi non riflettono in alcun modo il pensiero di Sallustio e di Tacito. Questi stessi storici si sarebbero molto stupiti dello sfruttamento tendenzioso, in senso faziosamente antiromano, di frasi che essi scrissero per tutt’altro motivo.

E già, perché quelli non sono dei loro commenti personali, ma delle critiche da essi attribuite a dei nemici dei Romani. Nel primo caso si tratta di Mitridate VI, il più crudele, sanguinario e spietato monarca ellenistico, che secondo Sallustio si espresse in quei termini in una lettera scritta al re Arsace per convincerlo a prendere le armi contro i Romani. Nel secondo caso il personaggio citato da Tacito è un certo Calcago, giovane guerriero di una delle tribù di Britanni insorte contro i Romani. Costui avrebbe pronunciato un'arringa per fomentare lo sdegno e l'odio di tutti i convenuti, al fine di indurli a combattere con il massimo vigore contro il governatore romano, Gneo Giulio Agricola. Era infatti abitudine degli storici antichi, secondo le buone regole della retorica, inserire i discorsi recanti le varie argomentazioni utilizzate negli schieramenti contrapposti per galvanizzare i combattenti prima della battaglia. Subito dopo le tesi degli insorti, infatti, il testo di Tacito continua con il discorso rivolto da Agricola ai legionari, in termini ovviamente molto diversi.

È piuttosto evidente che il far passare per un pensiero di Sallustio o di Tacito delle frasi che questi storici attribuirono a dei nemici di Roma rappresenti un’inaccettabile mistificazione. Ma purtroppo quelle frasi sono state trascritte tante di quelle volte al di fuori del loro contesto, che tutti continuano a riferirle come espressione del pensiero dei due grandi autori romani, senza accorgersi di contribuire a propalare inconsapevolmente un’ingannevole falsità.

Da quell'equivoco all’automatica equiparazione della “Pax Romana” alla cieca e brutale prevaricazione, il passo è molto breve. Ma per i Romani “Pax” non era nient’altro che la Pace, non solo come l’auspicavano le loro madri e le loro spose, come la cantavano i loro poeti e come la intendiamo oggigiorno anche noi, ma addirittura divinizzata e oggetto di culto, con propri altari e propri templi. Essa era stata inizialmente celebrata come Pax Augusta, come abbiamo visto, perché era stato proprio il figlio adottivo di Cesare a renderla ovunque effettiva, per la prima volta nella storia del mondo allora conosciuto, instaurandola sulla terra e sul mare.

La pace sul mare, in particolare, era stata ottenuta neutralizzando l’ultima grande minaccia originata oltremare – quella della grande forza navale orientale affrontata nelle acque di Azio – ed utilizzando poi le flotte vittoriose per mantenere ben saldo il controllo del Mediterraneo e delle altre acque che bagnavano le coste dell’Impero. In tali condizioni di forza, trovandosi ad esercitare la più assoluta forma di dominio del mare umanamente concepibile (cioè ponendo l’intero Mediterraneo sotto la legge di Roma, cosa che nessun altro ha mai potuto replicare), qualsiasi altra potenza avrebbe approfittato di tale indiscussa egemonia per privilegiare i propri interessi strategici ed economici, imponendo invece delle restrizioni alle attività marittime delle altre popolazioni rivierasche. Era ciò che nei secoli precedenti avevano fatto in varia misura gli Etruschi, i Cartaginesi ed i Tarantini nei confronti dei Romani, così come faceva ogni altra potenza navale nelle aree soggette al proprio controllo. Quelle, in effetti, erano sempre state le regole del gioco, accettate – volenti o nolenti – da tutti, senza che nessuno se ne fosse mai mostrato concettualmente scandalizzato. Gli stessi Romani, nella fase della progressiva crescita del loro potere marittimo, si erano conformati alla prassi vigente imponendo dei vincoli alla consistenza del naviglio ed alle attività navali dei popoli che avevano commesso contro di essi delle ostilità sul mare (Anziati, Illirici, Cartaginesi, ecc.).

Per contro, quando venne costituito l’Impero tutto cambiò. Le relazioni fra Roma e le province non furono più regolate dalla logica dell’assoggettamento alla volontà della città egemone, ma dalla necessità di amministrare in modo equo e produttivo tutto l’Impero, ovvero l’insieme delle genti accomunate dal riferimento all’autorità sovrana dello stesso Principe. Questa nuova concezione fu ottimamente resa evidente da Augusto, che, mediante i suoi lunghi viaggi nelle province d’Oriente e d’Occidente, si mostrò parimenti preoccupato del benessere dei Romani e di quello delle altre popolazioni dell’Impero. Lo Stato romano, d’altronde, era la patria del Diritto e garantiva a tutti la possibilità di difendersi dai soprusi, in forza della legge di Roma, che era fondamentalmente basata sui principi dell’equità e della naturalis ratio, la ragione naturale propria di tutti gli esseri umani.

Nel campo marittimo, in particolare, i Romani si basarono sul proprio radicato convincimento che il mare rientrasse, come l’acqua da bere e l’aria da respirare, nella categoria delle “res communes omnium”, ovvero dei beni di proprietà comune dell’intero genere umano. Coerentemente con tale presupposto, i giureconsulti romani sancirono per legge la libertà di utilizzo delle acque marine, purché non venissero lesi i diritti altrui. In tal modo vennero garantiti a tutti la libertà di navigazione ed il libero sfruttamento delle risorse marine: prelievo del sale, utilizzo dell’acqua marina per usi medici e veterinari, esercizio della pesca, attività di itticoltura e ricerca dei prodotti utilizzati per gli articoli di lusso, come i coralli, le perle, le porpore e le conchiglie per i cammei. La libertà di navigazione, sancita per tutti i mari, venne estesa anche ai fiumi, visto che i Romani erano adusi a sfruttare intensamente ogni possibilità di trasporto fluviale, soprattutto sul Tevere e sui grandi fiumi di confine come il Reno, il Danubio e l’Eufrate. Inoltre, la libertà di utilizzo del mare venne estesa anche alle relative spiagge, sulle quali i Romani riconoscevano il diritto di libero accesso. In origine, peraltro, questo diritto non era scaturito dalla volontà di favorire chi voleva accedere alle spiagge dal retroterra, ma dalla preoccupazione per chi sperava di giungervi dal mare: quella norma derivava infatti dal naturale diritto d’asilo che i Romani riconoscevano ai naufraghi, poiché nell’antichità il naufragio era una sventura alquanto comune.

La legislazione romana sul diritto del mare, come si vede, si basava su criteri molto più liberali di quelli odierni, visto che le norme internazionali, nonostante il principio di libertà della navigazione, consentono ora l’imposizione di vari vincoli ad aree estremamente ampie, suddivise in acque interne, acque territoriali, acque contigue, zona economica esclusiva e piattaforma continentale. A differenza di oggi, inoltre, la normativa romana sulla navigazione marittima era sempre applicata, senza possibilità di deroghe, come venne spiegato con la consueta chiarezza dall’imperatore Marco Aurelio: “io sono certamente il padrone del mondo, ma la legge lo è del mare” (Digesto 14, 2, 9). Se questa legge fu un essenziale fattore di benessere e di diffusione della civiltà, la generosità universalista di Roma fu poi una causa della sua caduta … ma anche e soprattutto della sua eternità.

© 2014 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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