Rivista trimestrale“IL RIEVOCATORE”
Anno LXIX, numero 4 - Ottobre-Dicembre 2023, pp. 4-6.

PROCIDA E MISENO

Una connessione ultramillenaria

di DOMENICO CARRO


La più arcaica affinità fra Miseno e Procida echeggia nel mito di due decessi avvenuti mentre Enea, giunto con le sue navi nelle acque della Campania, consultava la Sibilla Cumana [1]: essendo prematuramente defunti sia il trombettiere che una congiunta dell’eroe troiano, le loro salme furono rispettivamente tumulate sul promontorio e sulla vicina isola, luoghi che – secondo l’antica tradizione – da quei due personaggi presero rispettivamente i nomi di Misenum [2] e Prochyta [3].

Geograficamente, Miseno e Procida si fronteggiano dalle opposte rive del Canale di Procida, uno stretto braccio di mare che è sempre stato soggetto ad occasionali burrasche, talvolta anche con conseguenze funeste per i naviganti, per quanto esperti e professionali essi fossero. Ne fu un esempio, durante il principato di Nerone, il naufragio di alcune triremi misenensi che, provenienti da Formia, si trovarono nella necessità di affrontare la tempesta, ma non riuscirono a superare indenni il promontorio di Miseno [4]. Lo stesso pericolo venne avvertito fino all’epoca moderna anche da parte dei Procidani [5]. Ma da questi ultimi, come dai Romani e da tutte le popolazioni a vocazione marittima, il mare non è mai stato considerato come una barriera di separazione fra le terre, ma piuttosto come una delle più vantaggiose vie di comunicazione. Sotto questa ottica, Miseno e Procida erano di fatto confinanti.

Durante tutto il periodo dell’alto Impero, Miseno fu la base navale della più importante e potente delle flotte militari romane. Le sue navi operavano nell’intero Mediterraneo quale fattore di stabilità e di sicurezza, nonché di tutela della libertà della navigazione; in ambito locale, esse controllavano con particolare attenzione i numerosi obiettivi sensibili esistenti sia sulle coste del golfo di Napoli, sia sulle vicine isole appartenenti al demanio imperiale: da Capri a Ventotene e Ponza. Questa vigilanza, certamente estesa all’isola d’Ischia (per le grandi ville marittime ivi presenti), doveva inevitabilmente riguardare anche Procida, che era oggetto di una limitata frequentazione romana [6] ed i cui vari golfi erano potenzialmente utilizzabili da malintenzionati per occultare il proprio naviglio. Pur non essendoci pervenute notizie certe, è presumibile che, già in epoca romana, la straordinaria fertilità dell’isola abbia indotto i pochi abitanti ad incrementare progressivamente le proprie coltivazioni e ad avviare i primi commerci, appoggiandosi innanzitutto a Miseno che, a partire dal IV secolo, iniziò ad essere riconvertito da base navale militare a porto mercantile [7].

Sappiamo in effetti che sul finire del VI secolo la produzione vinicola di Procida raggiungeva sicuramente il porto di Miseno, come risulta da una lettera [8] scritta nel novembre 598 dal Papa Gregorio I (Gregorio Magno). Vi si parla dell’invio di venti urne [9] di vino dell’isola di Procida, offerte per due anni di seguito dal vir magnificus Teodosio al conte della piazzaforte di Miseno e poi arbitrariamente pretese dal conte suo successore, come se si trattasse di un diritto acquisito. In tale situazione, il Pontefice si rivolse a Maurenzio, maestro delle milizie di Napoli, per richiedergli non solo di vietare quella iniqua imposizione – che approfittava della devozione dei Procidani –, ma anche di favorire i legittimi interessi commerciali dell’isola.

Quando, verso la metà del IX secolo, la città di Miseno ed il suo porto furono completamente distrutti dai Saraceni [10], molti Misenensi riuscirono a fuggire, trasmigrando in parte nell’entroterra, a Frattamaggiore, ove reimpiantarono le loro corderie per la produzione di funi di canapa, la cui qualità è stata rinomata fino all’epoca moderna [11]; gli altri sbarcarono invece nell’isola di Procida [12], contribuendo significativamente alla successiva crescita ed affermazione della universale fama di cui hanno goduto i Procidani per la loro indiscussa perizia marittima.

Alla trasmigrazione dei Misenensi a Procida seguì un ulteriore provvedimento inteso ad aggregare alla stessa isola di Procida l’ex territorio misenense, da capo Miseno al Monte di Procida [13]. Analogo provvedimento fu peraltro assunto anche nell’ambito ecclesiastico, con la ricollocazione del clero misenense a Procida [14]. I Procidani furono sempre consapevoli dei propri diritti ancestrali sul territorio che era appartenuto a Miseno, ma a partire dal 1641 dovettero sostenere un lunghissimo contenzioso giuridico con i Pozzolani, che si arrogavano la facoltà di imporre gabelle ai coloni che dall’isola si recavano al Monte di Procida [15]. La contesa si concluse felicemente solo nelle prime decadi dell’800, con il formale riconoscimento dei diritti dei Procidani sul predetto Monte [16].

In quello stesso secolo Procida, che era stata definita nel ‘600 “un giardino piantato in mezzo al mare” [17], permaneva celebre per i suoi vini, per la sua frutta e per i relativi commerci navali [18], e continuava ad essere presente sull’ex territorio di Miseno, mettendo a dimora sul Monte di Procida dei nuovi vigneti a scaloni, detti dai coloni “alla procidana” [19] e rifornendosi di acqua dalla Grotta della Dragonara [20], come anticamente facevano le navi Misenensi.

© 2023 - Proprietà letteraria (copyright) di DOMENICO CARRO.


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Note:

[1] Verg. Aen. VI, 156-182; Origo gent. Rom. X, 1.

[2] Verg. Aen. VI, 212-235; Dion. Hal. ant. I, 53, 3.

[3] Naev. I, fragm. 18 (da Serv. Aen. IX, 712); Dion. Hal. ant. I, 53, 3, Origo gent. Rom. X, 2.

[4] Tac. ann. XV, 46.

[5] “Lo stretto canale che forma il mare tra il litorale Cumano e le isole di Procida ed Ischia, è procelloso e pericolosissimo … e naufragoso. Son cose queste a tutti note, e molto più ai Procidani che le hanno sempre sotto gli occhi, che conoscono molto bene il capo Miseno, e sanno quante barche anche Procidane son ivi perite, malgrado la somma bravura de’ loro marinari.” (G. Jatta, Discorsi sulla ripartizione civile, e chiesastica dell’antico agro Cumano, Misenese, Bajano, e Puzzuolano, Napoli 1843, p. 115s).

[6] I soli presunti reperti romani di cui si è avuto finora notizia sono due sepolcri rinvenuti nel 1950 e che non risultano finora esaminati: F. Ferrajoli, Procida: le tombe romane di Ciraccio, in il Rievocatore, Gennaio-Marzo 2023, p. 13.

[7] Questo processo, avviato per effetto delle donazioni di Costantino alla Chiesa romana (Lib. Pont. 34, 27), è documentato dall’archeologia: G. De Rossi, Il porto di Miseno tra Costantino e Gregorio Magno: nuova luce dalle recenti acquisizioni, in M. Khanoussi et al. (eds), L’Africa romana, Roma 2002, p. 839; 843; G. De Rossi et al., Il Porto di Miseno (Campania - Italia) in età trado antica: analisi dei contesti ceramici, in S. Menchelli et al. (eds.), LRCW 3: Late roman coarse wares, Oxford 2010, p. 487s.

[8] Greg. M. epist. IX, 53.

[9] Antica unità di misura romana di capacità, pari a circa 13,13 litri. Venti urne per un anno corrispondono quindi ad oltre 2,6 ettolitri, equivalenti a 350 nostre bottiglie da 75 cl.

[10] “Era questa città di Miseno opulenta, e magnifica, ma fu da’ Saracini distrutta l’anno del Signore 850.” (P. Sarnelli, Guida de’ forestieri, curiosi di vedere, e d’intendere le cose più notabili di Pozzoli, Baja, Miseno, Cuma, ed altri luoghi convicini, Napoli 1691, p. 102). La datazione della distruzione di Miseno oscilla, a seconda delle fonti, dal 845 all’880 (G. Jatta, Discorsi sulla ripartizione civile, e chiesastica dell’antico agro Cumano, Misenese, Bajano, e Puzzuolano, Napoli 1843, p. 57).

[11] A. Giordano, Memorie istoriche di Fratta Maggiore, Napoli 1834, pp. 85ss.

[12] “Un’antica tradizione vuole che i miseri abitanti di Miseno che scamparono al ferro de’ Saraceni siano rifuggiti nell’Isola di Procida, tradizione la quale l’accredita il picciolo tratto di mare che divide l’isola suddetta dal territorio di Miseno, il quale poté dare uno scampo ai Misenesi che rimasero superstiti all’eccidio della loro patria.” (G. Jatta, op. cit., p. 57).

[13] “Nell’Archivio della Regia Zecca ci siamo imbattuti in un’assai antica Carta [Archiv. d. R. Z. fascic. 40. fol. 12], la quale senza mistero ci dimostra l’esistenza di Miseno nel Territorio di Procida. … Lasciam agli altri di esaminare, se si poteva ritrovare Carta più evidente a dimostrare, che il Territorio Misenese sia stato a Procida aggregato. Si ricordi ognuno, che la maggior parte del Territorio Misenese componevano il Monte Miseno, ed il Monte ora detto di Procida; e tutti e due questi Monti nell’addotta Carta si descrivono in Procida.” (M.E. Scotti, Dissertazione corografico-istorica delle due antiche distrutte città Miseno e Cuma per lo rischiaramento delle ragioni del Regio Fisco contra la Università di Pozzuoli, Napoli 1775, p. 46ss.). “[Procida] Dopo la distruzione di Miseno circa l'anno 860 le venne aggregato il suo territorio forse per concessione degli stessi Dogi Napoletani, che l’aveano destinata per loro sollievo; e quindi il monte di Miseno … si disse Monte di Procida.” (L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo VII, Napoli 1804, p. 320). “Distrutto Miseno da’ Barbari, il suo territorio fu dato a quest’isola. Giovanni da Procida n’era il proprietario” (G. Ajello et al., Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, vol. 2, Napoli, 1845, p. 558).

[14] “Distrutta la chiesa di Miseno, il Capitolo e Clero ebbe a passare, in Procida, congetturandosi da un luogo che tuttavia in detta isola vien detto Sancta-Canonica, Sancta Catholica, e correttamente Santo Cattolico, o Sancio Cattolico.” (L. Giustiniani, op. cit., p. 321).

[15] M. Parascandolo, Procida dalle origini ai tempi nostri, Benevento 1893, p. 94ss.

[16] “Finalmente una sentenza del 27 febbraio 1826 facendo pieno ed assoluto diritto all'isola di Procida, dichiarò il Monte territorio procidano. Eppure si dove attendere fino al 31 Settembre del 1835 per vedere il Decreto che determinava i limiti fra i due Comuni e così vederla finita una volta per sempre.” (M. Parascandolo, op. cit., p. 98).

[17] “medio in pelago instructum viridarium” (C. Guicciardini, Mercurius Campanus, Napoli 1667, p. 252).

[18] “L'isola di Procida ha un castello, che custodisce il suo porto all'oriente; un altro porto apresi sulla spiaggia opposta; questi sono popolati da navigli, e fanno il traffico del vino, e delle frutta, arrecando a’ loro padroni una ricchezza sconosciuta alle altre isole.” (G. Ajello et al., op. cit., p. 558). “Procida è fertilissima in vini squisiti, in erbaggi e frutta di eccellente sapore, delle quali cose tutte le primizie, che si consumano in Napoli di là provengono.” (F. De Luca, R. Mastriani, Dizionario corografico del Reame di Napoli, Milano 1852, p. 795).

[19] L. Palatino, Storia di Pozzuoli e contorni, con breve tratto istorico di Ercolano, Pompei, Stabia e Pesto, Napoli 1826, p. 100s.

[20] “Egli è da osservarsi … a piè del monte Miseno dalla parte di Procida, la celebre grotta Dragonara, ossia Traconaria, in cui entrando, veggonsi varie gallerie, … in una delle quali oggi si osserva una ben grande vasca ivi praticata dagli antichi medesimi, e che anche al presente è ripiena di limpidissimi acqua, di cui fanno uso, a quel che dicono i naturali del luogo, gli abitanti di Procida.” (R. Paolini, Memorie sui monumenti di antichità e di belle arti, ch’esistono in Miseno, in Baoli, in Baja, in Cuma, in Pozzuoli, in Napoli, in Capua antica, in Ercolano, in Pompei ed in Pesto, Napoli 1812, p. 13).

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