Associazione Amor di Mare - Libreria Internazionale Il Mare
3° Convegno "Dalla battaglia delle Egadi
per una archeologia subacquea del Mediterraneo"

(Roma, Residence Ripetta, 27 marzo 1998)

BELLVM POENICVM

L'EPICA LOTTA DI
ROMA CONTRO CARTAGINE
PER IL DOMINIO DEL MARE


di DOMENICO CARRO
  1. Premessa
  2. Gli interessi marittimi di Roma
  3. Le prime navi da guerra dei Romani
  4. Deterioramento delle relazioni fra Roma e Cartagine
  5. Sbarco a Messina e approntamento delle quinqueremi
  6. Prime vittorie navali e primi sbarchi in Africa
  7. Blocco navale di Lilibeo e battaglia navale di Trapani
  8. Vittoria navale delle Egadi
  9. Il dominio del mare
  10. Conclusioni
© 2007 - Proprietà letteraria (copyright) di DOMENICO CARRO.
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SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home

I. PREMESSA


Fra le interminabili guerre che accompagnarono i primi secoli di Roma, un posto specialissimo è occupato dalla prima guerra Punica, che fu certamente la prima guerra eminentemente navale condotta dai Romani, la più navale di tutte le guerre romane prima di quelle contro i pirati, e la più grande e più terribile delle guerre navali di tutti i tempi. Essa si colloca inoltre, nell'ultramillenario continuo temporale della storia romana, come uno dei più significativi punti di svolta, là dove la grande strategia di Roma viene riorientata in direzione del mare e dell'oltremare, verso la progressiva espansione transmarina [1] su tutte le sponde del Mediterraneo.

Ma questa guerra è anche quella su cui si sono appuntati i maggiori dubbi, le più radicate diffidenze ed i più fieri scetticismi di gran parte dei commentatori storici dell'epoca moderna, comprensibilmente insoddisfatti dalla scarsità delle antiche fonti disponibili e dalla loro non accertabile attendibilità. In effetti, data la perdita delle opere degli autori contemporanei o temporalmente più vicini a quegli eventi (salvo alcuni isolati frammenti del Bellum Poenicum di Nevio e degli Annali di Ennio), la ricostruzione storica della prima guerra Punica deve necessariamente partire dalla narrazione di Polibio [2], integrata con le limitate informazioni aggiuntive desumibili da Cornelio Nepote, Diodoro Siculo, Cicerone e Valerio Massimo, dalle asciutte Periochae della perduta seconda deca di Tito Livio e dalle Epitome da questa derivate, con il marginale conforto di alcuni autori successivi (Appiano, Dione Cassio, Polieno, ecc.) e di qualche rara fonte epigrafica. È veramente poco, soprattutto se si sospetta che Polibio, reo di nutrire un'aperta simpatia per la natura vincente dei Romani, abbia voluto alterare deliberatamente i fatti, con finalità panegiriche o nell'intento di rendere più fascinoso il proprio racconto.

Il dubbio è legittimo, ed è anzi sempre doveroso nell'indagine storica, ma non è al momento suffragato da alcuna manifesta presenza di interpolazioni nell'intero testo delle Storie di Polibio; né possiamo oggi disporre di alcun altro elemento concreto per convalidare o per rimuovere quel sospetto. L'area operativa più critica del conflitto - le acque e le coste della Sicilia occidentale e delle Egadi - non hanno finora fornito testimonianze decisive al riguardo, ma ci si possono attendere importanti acquisizioni di conoscenza dall'accurata analisi dei ritrovamenti costieri e di quanto potrà essere recuperato con le tecniche dell'archeologia subacquea.

Nell'attesa, per non smarrirsi nei dubbi e nelle più fantasiose congetture, mi sembra che l'atteggiamento più equilibrato sia quello di allontanare qualsiasi preconcetta preclusione verso Polibio [3] - che venne peraltro ritenuto massimamente autorevole ("bonus auctor in primis") dal pur smaliziato Cicerone [4] - e lasciare che la ricostruzione storica permanga essenzialmente basata sul suo racconto, verificandone accuratamente la verosimiglianza e la coerenza con ogni altra informazione disponibile.

In tale ottica, inoltre, data la spiccata natura navale del conflitto, appare indispensabile riferirsi al quadro generale della storia di Roma vista sotto l'ottica navale e marittima [5], considerando, in particolare, sia le esigenze marittime dell'Urbe e le esperienze navali dei Romani prima del confronto diretto con i Cartaginesi, sia la riprova delle superiori capacità navali acquisite in questa guerra, alla luce dei successivi eventi significativi attraverso i quali i Quiriti sono pervenuti a quell'assoluto dominio del mare su cui si è instaurata la Pax Augusta [6].

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II. GLI INTERESSI MARITTIMI DI ROMA

 "Nei suoi antichissimi primordi Roma era stata certamente una città marinara" [7]. Fondata sulla riva sinistra del Tevere, all'altezza dell'isola Tiberina ed a breve distanza dalla foce, Roma ha infatti goduto, fin dalle sue origini, di tutti i vantaggi di una città marittima [8] - per l'agevole ed immediato collegamento con il mare - pur senza essere direttamente esposta alla minaccia di incursioni navali nemiche [9]. Essa fu pertanto in condizione di avvalersi del fiume per il trasporto delle derrate distribuite dal commercio marittimo, anche quando l'approvvigionamento per via terrestre le veniva negato dall'ostilità delle popolazioni circostanti. D'altra parte, la sua crescente importanza nei confronti di tali popolazioni fu, già nell'epoca più remota, strettamente collegato con la sua funzione di "emporio del commercio latino fluviale e marittimo" e di "piazzaforte marittima del Lazio" [10].

La precoce attenzione di Roma verso il mare risulta confermata dalle tradizioni relative alla fondazione della sue prime colonie marittime: innanzi tutto quella di Ostia [11], fondata proprio alla foce del fiume, poco dopo la conquista di quel territorio (VII secolo a.C.), e destinata a divenire il naturale porto marittimo dell'Urbe [12]; quindi, dopo circa un secolo, quella di Circeo [13], quale presidio meridionale della costa laziale, area soggetta a Roma e di diretto interesse ai fini della sua sicurezza marittima.

Trovandosi perennemente costretti a guardarsi dai propri vicini sui confini terrestri, i Romani si resero conto molto presto che loro sicurezza dipendeva strettamente dalla possibilità di navigare, così come venne più tardi espresso, con sicura efficacia, dal celeberrimo "navigare necesse est" di Pompeo Magno [14]. Non solo, ma essi dovettero altrettanto presto riconoscere la convenienza di gestire direttamente, oltre ai traffici marittimi di preminente interesse strategico, anche quelli più redditizi sotto il profilo economico; e tali introiti devono aver in buona parte contribuito al reperimento delle enormi risorse che furono necessarie per gli straordinari ampliamenti della città nel tardo periodo regio (Servio Tullio e Lucio Tarquinio) [15]. Le attività di commercio navale avviate dai Romani vennero progressivamente sviluppate fino a raggiungere, sul finire del VI secolo, un'ampiezza già significativa agli occhi di una potenza marittima di prima grandezza come Cartagine: il primo dei trattati navali fra Roma e Cartagine [16], che Polibio fa risalire al 509, lascia infatti intendere che i Romani avessero - fin dall'inizio della Repubblica - dei traffici marittimi diretti alle isole maggiori ed al Nord Africa. L'utilizzo del trasporto marittimo per i rifornimenti vitali dell'Urbe, nei primi decenni della Repubblica, è peraltro esplicitamente riportato anche da Tito Livio e da altre fonti [17].

Il commercio navale romano si estese poi ulteriormente nel corso del V secolo, andando ad interessare, nella prima metà del IV secolo, tutta la parte centro-occidentale del Mediterraneo - dalle acque della Spagna allo Ionio, come si desume dal secondo trattato navale con Cartagine [18] e dall'analogo trattato stipulato con Taranto [19].

Nel III secolo, infine, quello stesso commercio aveva ormai raggiunto uno sviluppo di tutto rispetto. Le dimensioni della rete del traffico navale alla vigilia della prima guerra Punica, infatti, non potrebbe essere stata molto dissimile da quella verificabile subito dopo il conflitto; ed in tale periodo vi è l'evidenza di consistenti traffici provenienti dai porti dell'Italia e diretti nelle acque africane (ove dei marittimi subirono dei soprusi durante la guerra Libica [20]), in quelle iberiche settentrionali (litorale incluso nell'area d'influenza romana dal cosiddetto trattato dell'Ebro [21]) ed in quelle balcaniche (ove delle navi furono aggredite dalla pirateria illirica [22]): sono state citate, come si vede, le tre aree in cui le violazioni commesse dai Cartaginesi e dagli Illiri determinarono altrettante dichiarazioni di guerra da parte di Roma, e tale forte risposta denota certamente una più che matura consapevolezza dei Quiriti circa l'esigenza di tutelare i propri traffici marittimi ed i propri interessi oltremare. È peraltro piuttosto noto che i Romani hanno sempre considerato il commercio marittimo non solo come una necessità vitale (aspetto di perenne validità lungo l'intero arco della storia di Roma), ma anche come un'attività estremamente lucrosa (fra gli autori più antichi, si trova già questo concetto in Plauto [23]) ed i cui guadagni compensavano ampiamente gli elevati rischi cui erano sempre soggette le navi onerarie, per il maltempo o per gli attacchi dei pirati.

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III. LE PRIME NAVI DA GUERRA DEI ROMANI

 Dal momento in cui i Romani si affacciarono per la prima volta sul mare ed avviarono i loro primi commerci marittimi, dovettero necessariamente fare i conti con il sempre presente rischio di depredamento da parte dei pirati, in agguato nelle acque in cui potevano impunemente condurre i loro abbordaggi: Roma deve quindi essersi dotata molto presto - come tutte le città e gli stati rivieraschi che avevano accesso diretto al mare - di alcune navi da guerra per la protezione delle attività commerciali più sensibili. L'esistenza di navi da guerra romane fin dai primi secoli della Repubblica è ammessa da Polibio, a proposito del trattato navale del VI secolo, e viene implicitamente ritenuta possibile anche da Tito Livio, nel riferire un evento del V secolo [24].

Lo stesso Tito Livio e Plutarco riportano poi esplicitamente l'utilizzo di una nave da guerra romana agli inizi del IV secolo (394): armata con l'equipaggio migliore, essa venne inviata dal Senato in Grecia, nel golfo di Corinto, per portare un'offerta al santuario di Apollo Delfico [25]. Durante la traversata, delle triremi di pirati la dirottarono nel porto di Lipari, rilasciandola tuttavia subito dopo, e con tutti gli onori: per convincere quella gente, rotta ad ogni efferatezza, a rinunciare con tale immediatezza ad un'ambita preda navale, Roma doveva certamente già possedere una consolidata capacità di tutelare il proprio naviglio attraverso una pronta e più che convincente pressione dissuasiva.

I Romani subirono tuttavia, molti decenni dopo, due incursioni condotte da parte di altre formazioni piratiche contro la costa laziale: la prima volta, nel 349, si trattò di una flotta greca probabilmente proveniente dalla Sicilia (i pirati vennero ricacciati in mare un anno dopo) [26]; la seconda volta, nel 340, furono le navi di Anzio ad effettuare delle incursioni ostili sul litorale di Ostia. Due anni dopo la città di Anzio venne espugnata, la sua flotta venne in parte requisita ed in parte bruciata (utilizzandone i rostri per ornare la celebre tribuna del Foro), ed il mare venne precluso per sempre agli Anziati [27].

La cattura delle navi di Anzio e la loro immissione sugli scali dei cantieri navali già esistenti nell'Urbe fornì ai Romani una disponibilità navale tale da costituire il nucleo di una vera e propria Marina da guerra, di dimensioni contenute ma comunque coerenti con l'ancor limitato ruolo di potenza regionale assunto da Roma. Le esigenze di gestione della flotta richiesero ben presto (312) l'istituzione di un'apposita magistratura dello Stato: i duumviri navali, nominati da parte del popolo e preposti "all'allestimento e alle riparazioni della flotta", nonché al suo comando in mare [28]. In quello stesso periodo assume anche particolare evidenza l'esistenza di uno spiccato orgoglio navale romano, che si traduce, ad esempio, nella già citata monumentalizzazione dei rostri nel cuore dell'Urbe [29] e nella raffigurazione della prora rostrata di una nave da guerra su tutte le monete, tanto che questa immagine diviene, di fatto, il più diffuso emblema di Roma [30].

Circa la tipologia dei compiti assegnati a questa flotta, abbiamo quattro buoni esempi da cui si può facilmente desumere che l'attività operativa si estendeva nell'intera gamma delle missioni che debbono essere considerate da una nazione che voglia consolidare ed espandere il proprio potere marittimo.

Innanzi tutto occorreva mantenere il controllo delle proprie acque costiere e di quelle limitrofe: fin da quegli anni (311) la flotta romana assolse, su mandato del Senato, compiti di sorveglianza delle coste, penetrando anche all'interno del golfo di Napoli [31] sebbene vi fossero presenti delle marinerie di antica tradizione e di sicura perizia.

Vi era poi l'esigenza di esplorare gli altri litorali di possibile interesse: sempre in quegli anni (307), infatti, una flottiglia romana di 25 navi effettuò una ricognizione navale in Corsica per verificare la possibilità di fondarvi una colonia (la località prescelta venne tuttavia giudicata eccessivamente inospitale) [32].

Permaneva inoltre l'opportunità di utilizzare le navi militari per le missioni di Stato oltremare, come quella effettuata nel 292 dalla trireme romana inviata nel mare Egeo, ad Epidauro, per prelevare il simulacro di Esculapio (insediato poi nell'isola Tiberina) [33].

La quarta e più significativa missione che troviamo in quegli anni è quella del sostegno navale a favore degli alleati: fu quella assegnata nel 282 al duumviro navale Lucio Cornelio, inviato con una flottiglia di dieci navi nel golfo di Taranto in sostegno alla città di Turi, minacciata dai Lucani. Mentre passava davanti alla città di Taranto, senza nulla dover temere da quella parte, la piccola formazione romana venne sottoposta a quel proditorio attacco della flotta tarantina che determinò - dopo alcune vane ambascerie - la guerra di Roma contro Taranto (e contro il suo alleato Pirro) [34].

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IV. DETERIORAMENTO DELLE RELAZIONI FRA ROMA E CARTAGINE

Il severo impegno a cui Roma venne sottoposta nel corso della guerra contro Taranto - soprattutto a causa dell'apparente invincibilità delle forze di Pirro sbarcate in Italia - venne accompagnato da profonde mutazioni nelle sue relazioni con Cartagine.

Nelle fasi iniziali del conflitto, i Cartaginesi provarono a sedurre i Romani con un gesto di apparente amicizia, presentandosi inaspettatamente davanti ad Ostia (nel 282) con una poderosa flotta (120-130 navi) che essi rendevano disponibile per sostenere le operazioni romane. Si trattava evidentemente di un tentativo di ingerenza nella guerra che si stava svolgendo in Italia, con gravi difficoltà per i Romani sul fronte terrestre, e che avrebbe comportato una ineludibile subordinazione di Roma ad una sorta di protettorato punico nello scacchiere marittimo. Il Senato, fedele all'intransigente costume dei Romani nei momenti di massimo pericolo, respinse l'offerta dei Cartaginesi rendendo noto al loro ammiraglio Magone che Roma non aveva l'abitudine di intraprendere delle guerre che non fosse in grado di combattere con le proprie forze [35]. Va osservato che il Senato non disse di non aver bisogno del sostegno navale, ma di avere forze sufficienti per tutte le necessità belliche, lasciando intendere che le pur modeste forze navali disponibili fossero comunque in grado di far fronte alle prevedibili esigenze (controllo delle fasce marittime costiere e concorso alle operazioni terrestri).

Tre anni dopo, perdurando ancora quella stessa guerra, venne comunque ratificato il terzo trattato navale fra Roma e Cartagine: esso prevedeva una reciproca assistenza in caso di necessità belliche, attribuendo ai Cartaginesi l'onere del trasporto navale delle truppe e l'obbligo di fornire il sostegno eventualmente necessario alle operazioni navali romane. Nessuna delle forme di assistenza contemplate da quel documento venne tuttavia richiesta dai Romani per tutto il prosieguo della guerra contro Pirro. Quest'ultimo, finalmente sconfitto dal console Curio Dentato nel 275, lasciò definitivamente l'Italia.

I Romani poterono così concentrare la propria azione contro Taranto, continuando sempre ad astenersi dal richiedere qualsiasi aiuto ai Cartaginesi. Ma furono costoro a decidere autonomamente di rientrare in scena, sul finire di quella guerra, con un clamoroso, quanto inutile, ribaltone: nel 272, infatti, mentre la città di Taranto - ormai stremata - stava per capitolare, essi inviarono la propria flotta in aiuto agli assediati [36]. Anche se tale iniziativa doveva dimostrarsi ininfluente sull'esito della guerra, essa costituì comunque un plateale gesto di ostilità contro Roma, aggravato dalla violazione del trattato di mutua assistenza sottoscritto solo sette anni prima. Si trattò, per i Cartaginesi, di un passo falso, visto che risultò inefficace; ma quel passo era coerente con la logica che aveva animato l'interesse punico verso il conflitto in Italia: sfruttare i momenti di maggiore difficoltà di uno dei contendenti per tentare di aggiogarlo, avvalendosi del proprio strapotere nel campo marittimo; non essendovi riusciti con i Romani (né con la prima generosa offerta della flotta, né con le attraenti clausole del trattato navale), essi avevano tentato in extremis con Taranto, nel convincimento che gli aiuti recati dalla flotta avrebbero scongiurato la capitolazione della città.

Conclusa la guerra Tarantina, Roma si trovò incontrastata egemone sull'intera Penisola. Essa aveva già da tempo iniziato a pensare in termini di potere marittimo, costituendo la sua prima marina da guerra e provvedendo, con le navi rostrate di cui si era dotata, ad estendere il proprio controllo sul mare ai fini della sicurezza delle coste tirreniche e della crescente flotta mercantile utilizzata. A quel punto, le sue accresciute responsabilità nei confronti di tutte le popolazioni d'Italia resero inevitabile il confronto con la potenza navale punica, giacché questa manteneva l'assoluta capacità di condizionare a suo piacimento il libero svolgimento dei traffici marittimi di vitale interesse per i rifornimenti e per l'economia della stessa Roma e delle altre marinerie della Penisola. Inoltre, la grave slealtà commessa dai Cartaginesi stava facendo germinare, presso i Romani, quella diffidenza per la malafede punica che dovrà più tardi determinare l'irriducibile rancore di Catone [37].

Quando i Mamertini, nel 268, richiesero l'aiuto degli alleati Romani in difesa di Messina, minacciata dai Siracusani e dai Cartaginesi, il Senato fu estremamente cauto prima di aderire alla richiesta: da un lato, data l'importanza strategica della Sicilia ai fini delle esigenze economiche e di sicurezza di Roma e dell'Italia, non poteva lasciare che Cartagine completasse il proprio insediamento in quell'isola, da cui avrebbe potuto minacciare l'intera Penisola [38]; d'altra parte era ben consapevole delle difficoltà dell'impresa, visto che si trattava di sfidare la maggiore potenza marittima esistente nel Mediterraneo. Venne comunque deciso di costituire una flotta radunando, oltre alle navi da guerra romane, tutto il naviglio utilizzabile che potesse essere prontamente reperito presso le altre marinerie d'Italia. A tale compito vennero preposti quattro provveditori della flotta, detti questori classici (magistratura istituita nel 267) [39]. Mommsen, nel riferire la posizione assegnata a tre dei predetti provveditori (il primo ad Ostia, per il porto di Roma; il secondo a Cales, per la Campania e la Magna Grecia; il terzo a Rimini, per i porti adriatici), precisa ch'essi erano incaricati di sorvegliare le coste e di radunare ed organizzare una marina da guerra per difenderle; ed aggiunge che, con tale provvedimento, il Senato dimostrò la volontà di acquisire piena libertà e potenza sui mari, porre tutte le marinerie d'Italia sotto il pieno controllo di Roma, interdire l'Adriatico ad eventuali nuove flotte provenienti dall'Epiro, affrancarsi dalla supremazia cartaginese [40]. Anche se egli non cita le fonti da cui ha tratto i predetti dati, i provvedimenti parzialmente delineati appaiono bene attagliarsi alle principali esigenze marittime di Roma in previsione del conflitto con Cartagine, Va comunque precisato che l'insieme delle navi radunate ed immesse nella nuova organizzazione doveva essere utilizzato non solo per la protezione delle coste, ma anche per costituire la flotta di inviare in Sicilia.

Tre anni dopo (264), Roma annunciò il proprio intervento in difesa degli alleati di Messina, tenuto conto che il trattato bilaterale con Cartagine era decaduto, essendo stato infranto dalla parte punica con l'aiuto recato ai Tarantini [41]. Le predisposizioni navali essenziali erano ormai state messe a punto.

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V. SBARCO A MESSINA E APPRONTAMENTO DELLE QUINQUEREMI

La grande flotta messa insieme per il trasporto e lo sbarco dell'esercito romano in Sicilia era costituita da unità da guerra piuttosto leggere - triremi e navi da cinquanta remi - integrate da navi onerarie per il trasporto di tutto quanto era necessario per la logistica. Completato l'imbarco, il console Appio Claudio salpò per Messina; durante la traversata la flotta romana venne intercettata da quella punica, che ingaggiò il combattimento in mare, inducendo i Romani a ritirarsi nel porto di Reggio. In quell'occasione, una quinquereme cartaginese, portatasi troppo sotto costa per la foga dell'inseguimento, si sarebbe arenata sulla spiaggia calabra, venendo in tal modo catturata dai Romani [42].

I Cartaginesi, attraverso un'ambasceria inviata a Reggio, provarono a dissuadere Appio Claudio dal proseguire la missione, mostrandosi stupiti che i Romani potessero avventurarsi verso la Sicilia mentre essi detenevano il pieno controllo del mare: i Romani dovevano convincersi che, solo mantenendo delle buone relazioni con Cartagine, avrebbero potuto azzardarsi a mettere in acqua le proprie navi [43]. Ciò doveva riflettere l'effettivo atteggiamento mentale cartaginese all'inizio della guerra; e si trattava comunque di tesi suffragate da una realtà inequivocabile: la schiacciante superiorità navale punica, in termini di consistenza delle flotte, di dimensioni e di prestazioni delle singole unità (le quinqueremi, in particolare), di esperienza di combattimento navale dei comandanti e degli equipaggi, di capacità dei cantieri navali, ecc..

Trovandosi a Reggio, bloccato dalla flotta punica che presidiava lo stretto di Messina, Appio Claudio sarebbe ricorso ad un audace stratagemma: lasciando che trapelasse e si diffondesse la falsa notizia del suo abbandono della spedizione, ed avendo poi fatto avviare svariate unità in mare aperto, come se stessero dirigendo per rientrare nei rispettivi porti della Penisola, avrebbe atteso il conseguente allontanamento delle navi cartaginesi per poi radunare tutte le sue navi ed attraversare lo stretto di notte, portando così la sua flotta a Messina senza danni [44].

Nel biennio 263-262, i Romani poterono avvalersi anche del concorso della flotta del re Gerone di Siracusa, con cui si erano alleati. Tale flotta, tuttavia, ancorché utilissima ai fini della sicurezza dell'afflusso dei rifornimenti logistici romani, non era in grado di imporre alcuna limitazione alla libertà di movimento dei Cartaginesi sul mare. In tale situazione, le flotte puniche rendevano precaria ogni conquista romana sulle coste della Sicilia e potevano nel contempo effettuare anche delle saltuarie incursioni sulle coste della Penisola, mentre i Romani potevano ottenere dei successi durevoli solo in alcune zone della Sicilia e non avevano alcuna possibilità di minacciare il territorio africano.

Avendo quindi molto presto compreso che nessun risultato risolutivo avrebbe potuto essere conseguito qualora non fossero riusciti, essi stessi, ad acquisire il pieno controllo del mare, i Romani intrapresero la costruzione della loro prima grande flotta costituita prevalentemente da quinqueremi (cento unità, a cui vennero aggiunte venti triremi). Per costruire quelle grandi poliremi, non utilizzate dalle marinerie d'Italia e per le quali non erano pertanto disponibili delle specifiche esperienze cantieristiche, sarebbero stati utilizzati i piani di costruzione rilevati dallo studio dell'unità cartaginese catturata sulla costa calabra [42]. Non essendovi elementi per comprovare la veridicità di questo episodio (ma nemmeno per invalidarla), dobbiamo limitarci alla sua verosimiglianza: chi ha qualche esperienza di costruzioni navali non può che trovarlo del tutto credibile e perfino ovvio, essendo piuttosto scontato che un buon carpentiere navale sia perfettamente in grado di costruire un nuovo scafo - anche più grande delle sue costruzioni abituali - riproducendo integralmente un modello già disponibile. Qualcosa di molto più complesso verrà poi fatto da Cesare in Gallia, quando, tenendo conto di quanto osservato sulle navi dei Veneti, volle introdurre sulle nuove navi da costruire per il secondo sbarco navale in Britannia delle caratteristiche dello scafo del tutto innovative [45], ciò che dovette necessariamente comportare il vero e proprio studio di un nuovo piano di costruzione.

Mentre la costruzione delle navi procedeva, venne curata la preparazione del personale. Dovendo formare ex-novo tutti gli equipaggi necessari, e dovendoli in particolare addestrare al complesso remeggio delle quinqueremi, venne realizzato a terra un vero e proprio allenatore costituito dalla riproduzione dei banchi dei rematori esistenti a bordo [46]. Il sistema, tuttora in vigore per l'allenamento dei canottieri alla voga, deve essere stato utilizzato anche in altri casi nell'antichità [47]; nella storia romana, peraltro, un esempio celebre di addestramento degli equipaggi in porto è quello relativo alla preparazione della nuova flotta di Ottaviano, nel portus Iulius, sotto il comando di Marco Agrippa [48].

Infine, per consentire alle nuove quinqueremi romane di imporsi su quelle nemiche - certamente manovrate con maggiore scaltrezza, visto che i Punici utilizzavano normalmente quel tipo di nave mentre gli equipaggi di Roma vi dovevano imbarcare per la prima volta - venne sistemata a prora delle unità romane la nuova macchina bellica che Polibio descrive dettagliatamente (passerella orientabile, dotata di un robusto dente per agganciare la nave nemica), attribuendole il nome di corvo [49] (mentre gli autori romani parlano di mani di ferro, talvolta associate al lancio di una passerella [50]). È noto che a questa macchina si è legato, fin dall'antichità, lo stucchevole ritornello che le attribuisce la capacità di "trasformare la battaglia navale in un combattimento terrestre", assurdità di tutta evidenza per chi abbia una minima conoscenza, sia di questi, che di quelle: qualsiasi marinaio sa bene che stare a bordo, navigare, arrembare una nave nemica e combattervi sono tutte attività tipicamente navali, che richiedono un addestramento specifico oltre al necessario piede marino. La fanteria di marina - per i Romani: i classici o navali milites, più comunemente chiamati socii navales (anche nei periodi in cui furono obbligatoriamente reclutati fra i cittadini romani) - è sempre stata una forza marittima.

Nei combattimenti navali dell'antichità, tutte le azioni venivano precedute ed accompagnate dal lancio di proiettili; non appena a distanza ravvicinata, l'avversario veniva impegnato direttamente, innanzi tutto con azioni di speronamento - con il rostro, per sfondare le fiancate delle navi nemiche o anche per danneggiare gli organi di governo (remi e timoni) - e, in un secondo tempo, con l'arrembaggio delle navi che si riusciva ad affiancare ed a trarre a sé con il lancio di rampini (con cui si portavano le due fiancate a contatto, trattenendo poi l'altra nave in tale posizione abbordata). L'invenzione di questi rampini (harpagones o manus), attrezzi marinareschi tuttora in uso, viene fatta risalire addirittura a Pericle di Atene [51]: essi hanno continuato ad essere utilizzati per gli arrembaggi in battaglia navale perlomeno fino al XVI secolo (Lepanto).

L'introduzione del corvo, attribuita a Caio Duilio, si prefiggeva una finalità del tutto analoga a quella dei rampini, consentendo però un efficace aggancio della nave nemica anche senza doversi preventivamente portare in posizione affiancata. Essa risultò utilissima ai Romani, poiché li mise in condizione di poter arrembare anche quelle navi che, per la maggior velocità o per le migliori qualità evolutive, si sarebbero sottratte alle loro manovre di affiancamento. La stessa esigenza dovrà poi indurre Marco Agrippa, circa due secoli e mezzo dopo, a mettere a punto l'arpax per poter agganciare a distanza le più manovriere navi dei pirati di Sesto Pompeo [52].

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VI. PRIME VITTORIE NAVALI E PRIMI SBARCHI IN AFRICA

Il console Caio Duilio (260) aveva assunto il comando della flotta in sostituzione del collega Gneo Cornelio Scipione, che, portatosi alle Lipari con 17 navi, era stato catturato dai Cartaginesi con un inganno. Poco prima la flotta romana aveva già riportato un primo incoraggiante successo contro i Cartaginesi al largo di capo Vaticano. Ma fu Caio Duilio a condurre vittoriosamente la flotta di Roma nella sua prima grande battaglia navale. Questa avvenne, com'è noto, nelle acque di Milazzo, contro una flotta punica di 130 navi. Lo scontro, caratterizzato dal felice sfruttamento della sorpresa costituita dalla presenza e dall'efficacia dei corvi, fu pienamente favorevole ai Romani: dopo aver tentato di portarsi all'attacco con i rostri, confidando nella maggiore agilità delle proprie navi, i Cartaginesi vennero frastornati dall'implacabile azione dei corvi, che incombevano minacciosamente da ogni parte e che si abbattevano su ogni nave che si avvicinava; avendo subito la perdita di una cinquantina di navi, i superstiti presero la fuga, prostrati dall'inattesa esperienza [53].

La vittoria navale di Milazzo segnò una svolta memorabile nella storia di Roma, che aveva raggiunto la statura di una potenza navale in grado di misurarsi con Cartagine. Nessun'altra vittoria suscitò un maggiore entusiasmo fra i Romani, che a quel punto potevano ragionevolmente prefiggersi anche la conquista del dominio del mare sottraendo a Cartagine la sua supremazia [54]. L'eccezionalità dell'evento risulta peraltro comprovato dalla straordinaria serie di onori riservata al vincitore: egli inaugurò la lunga serie dei trionfi navali [55] dei comandanti delle flotte romane, cerimonie che poi dovranno accompagnare tutta la fase dell'espansione transmarina di Roma; in suo onore venne anche eretta, nel Foro romano, la prima colonna rostrata dell'Urbe, monumento che venne costantemente manutenuto dai Romani, tanto da permanere al suo posto anche durante il periodo dell'Impero (vi sono testimonianze dirette nel II secolo d.C. [56]) e far pervenire fino ai nostri giorni un'ampia parte dell'iscrizione del basamento; a Caio Duilio venne infine accordato un altro privilegio senza precedenti - quello della scorta permanente con fiaccole e suonatori - inteso a mantenerlo circondato da un'aura trionfale per tutto il resto della sua vita [57].

Ma i Romani non si limitarono certo agli aspetti protocollari e celebrativi. Essi mostrarono anzi, molto chiaramente, la volontà di consolidare il proprio potere marittimo infliggendo a Cartagine ogni possibile danno: sui suoi possedimenti nelle tre isole maggiori, sulla sua flotta e sul suolo d'Africa. Subito dopo la vittoria navale, infatti, essi utilizzarono la flotta per ottenere degli immediati successi nella Sicilia occidentale (ove si erano concentrate le posizioni puniche) ed effettuarono poi una spedizione navale in Sardegna ed in Corsica (259), ove sconfissero i Cartaginesi, conquistando la Corsica e la sua capitale Aleria e scalzando il nemico dalla Sardegna settentrionale [58]. Due anni dopo, il console Caio Attilio Regolo, con un brillante stratagemma adottato per indurre i riluttanti Cartaginesi al combattimento [59], ottenne nelle acque di Tindari una parziale vittoria navale che gli valse il conferimento della prima corona navale [60] (quella che dovrà poi divenire, con Varrone e soprattutto con Marco Agrippa, la più ambita delle onorificenze militari dei Romani), probabilmente più per premiare la sua irruente combattività che non per la valenza del risultato conseguito. Il predetto console, peraltro, condusse anche delle efficaci incursioni navali contro gli insediamenti punici nelle Lipari e nell'isola di Malta [61]. Nel frattempo i Romani prepararono una grande spedizione anfibia per portare la guerra in Africa.

L'imponente forza navale approntata a tale scopo affrontò la flotta nemica nell'estate del 256 al largo di Ecnomo (località sul promontorio della costa sud-occidentale sicula, nei pressi dell'odierna Licata). Quella di Ecnomo fu la più grande delle battaglie navali mai registrate dalla Storia, sia per numero di navi partecipanti (680, di cui 330 navi romane), sia per numero di uomini imbarcati (290 mila, di cui 140 mila Romani). La flotta romana affrontò il combattimento pur essendo appesantita dal carico bellico necessario per lo sbarco in Africa: vi erano perfino le navi che trasportavano i cavalli, poste a rimorchio di quelle della terza squadra (costituita da quinqueremi dotate del corvo). Pertanto i due consoli romani, Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone, adottarono un dispositivo idoneo a proteggere le navi più lente e meno manovriere. Anche in questa battaglia, tatticamente molto più complessa di quella di Milazzo, i Romani ebbero la meglio, perdendo solo 24 navi, mentre i Cartaginesi ne persero un centinaio, di cui 64 catturate con tutti gli equipaggi [62].

Dopo la vittoria navale di Ecnomo, Attilio Regolo condusse con successo anche il primo sbarco navale romano in Africa, impadronendosi di Clupea (odierna Kelibia) e di Tunisi, giungendo quindi a pochi chilometri dalla stessa Cartagine. Avendo subito ripetute sconfitte e perduto numerose città, i Cartaginesi accettarono di intavolare delle trattative di pace, che non approdarono tuttavia alla cessazione delle ostilità poiché le condizioni presentate da Roma furono giudicate eccessivamente dure [63]. È noto che le successive operazioni terrestri si risolsero in una grave sconfitta dei Romani e nella cattura del loro celebre ed eroico comandante in capo [64].

La flotta romana, inviata in Africa nella successiva primavera (255) per soccorre ed evacuare le forze terrestri, conseguì il pieno successo, ottenendo nelle acque di capo Ermeo anche una brillante vittoria navale, che fruttò la cattura di ben 114 navi puniche e la dedica di una colonna rostrata sul Campidoglio in onore del console Marco Emilio Paolo. La missione venne tuttavia funestata nelle acque di Camarina da un disastroso naufragio, da cui si salvarono solo 80 navi su 364 [65]. Nei due anni seguenti, la flotta romana (con 300 navi) venne impiegata per la presa di Palermo (254) [66] e per un'altra redditizia incursione in Africa (253), seguita da un secondo tremendo naufragio, al largo di capo Palinuro, ove vennero perse più di 150 navi [67].

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VII. BLOCCO NAVALE DI LILIBEO E BATTAGLIA NAVALE DI TRAPANI

Dopo essere stati privati, in così breve tempo, delle oltre 400 navi distrutte dalle tempeste, i Romani ebbero bisogno di un paio di anni per riapprontare una nuova flotta ed i relativi equipaggi. In quell'intervallo di tempo, essi limitarono l'attività navale (con sole 60 unità) alla protezione delle coste d'Italia ed al sostegno logistico delle forze romane operanti in Sicilia.

È ragionevole inoltre supporre che essi abbiano approfittato di tale pausa per analizzare quelle disgrazie in modo da trarne degli insegnamenti da valorizzare in fase di allestimento delle nuove unità. Pur non disponendo di informazioni in merito sui testi antichi, mi sembra particolarmente interessante e realistica l'ipotesi che, in tale occasione, i Romani abbiano deciso di rinunciare ai corvi (esplicitamente citati da Polibio solo nella descrizione delle battaglie navali di Milazzo e di Ecnomo), la cui consistente mole aveva probabilmente concorso a rendere più instabili le navi in situazione di maltempo [68].

A proposito dei corvi, occorre anche riconoscere che la loro presenza non avrebbe comunque potuto sopperire ad una ipotetica lentezza di manovra dei comandanti delle navi romane. Quelle macchine, infatti, erano idonee ad agganciare e trattenere le navi nemiche, abbassando al di là del bastingaggio il robusto dente posto sotto all'estremità della passerella, ma non avevano alcuna possibilità di fermare la corsa di una nave lanciata a tutta velocità in un'azione di speronamento; e se era proprio nello speronamento che i Cartaginesi sapevano meglio esprimere tutta la propria consumata abilità di manovratori e di dominatori dei combattimenti navali (disponendo oltre tutto di navi agili, veloci, altamente manovriere e perfettamente messe a punto dalla più raffinata esperienza marinaresca), le limitate perdite di navi romane nelle prime grandi battaglie navali dimostrano che i comandanti di Caio Duilio e di Marco Attilio Regolo sapevano comunque schivare i rostri punici, contromanovrando con altrettanta abilità. Peraltro, nell'arte delle evoluzioni navali ravvicinate, non vi è alcuna differenza concettuale fra le attitudini alla manovra e quelle alla contromanovra, poiché tutti i comandanti si trovano a dover contemporaneamente manovrare e contromanovrare.

In ogni caso, era ormai trascorso quasi un decennio da quando i Romani avevano iniziato a combattere con le quinqueremi, che non presentavano più quelle incognite che si erano dovute compensare con l'artificio del corvo. È pertanto logico che, anche alla luce degli eventi più recenti, esso sia stato reputato non più indispensabile (negli ultimi combattimenti navali il corvo, quasi certamente ancora presente, potrebbe essere stato lasciato inattivo) e - tutto sommato - meno vantaggioso del normale abbordaggio, poiché questo consentiva di arrembare lungo l'intera fiancata della nave, anziché solo attraverso quella passerella (divenuta anche particolarmente rischiosa da quando, cessato l'effetto sorpresa, il nemico si attendeva che gli assalitori si sarebbero concentrati su di essa).

La nuova flotta in tal modo approntata, venne inviata nel 250 a Lilibeo (odierna Marsala) per sottoporre al blocco navale [69] quel porto, base di importanza strategica per i collegamenti con l'Africa. Poiché la stessa città stava per essere anche cinta d'assedio (isolandola alle spalle con la costruzione di un fossato da mare a mare), i Cartaginesi inviarono subito dei consistenti rinforzi - diecimila uomini - imbarcati su 50 navi. Quella flotta, si fermò alle Egadi in attesa dell'occasione propizia; poi, approfittando di un forte vento di maestrale, fece vela ad alta velocità verso l'imboccatura del porto, senza che la flotta romana - schierata in quelle acque e pronta al combattimento - potesse arrischiarsi ad ostacolarne l'impetuoso transito. La presenza navale romana impedì poi qualsiasi altro contatto fra gli assediati e l'Africa, tanto che Cartagine non riusciva nemmeno più a ricevere le necessarie informazioni sull'evolversi della situazione. A tale carenza volle rimediare un certo Annibale Rodio, che, imbarcato su di una nave costruita in modo tale da risultare molto più veloce di quelle romane, riuscì ad effettuare alcune volte il transito senza essere intercettato, nonostante gli accorgimenti adottati dai Romani per non farsi sorprendere. Visto che anche altri temerari iniziavano ad imitare quell'impresa, i Romani vollero ostruire parzialmente l'imboccatura del porto, facendovi affondare 15 navi leggere riempite di pietre, creando in tal modo una specie di tumulo sommerso su cui si incagliò poco dopo una nave del tipo di quella del Rodio: l'unità venne catturata e riarmata dai Romani, che con essa poterono presto intercettare e costringere alla resa anche quella del Rodio; poi, disponendo di queste due unità così veloci, riuscirono ad impedire qualsiasi ulteriore violazione del blocco navale.

Segue poi la pagina più nera dell'intero conflitto, quella del pressoché totale annientamento della flotta romana, nel 249 [70]. In quell'anno le operazioni navali romane si avviarono con un infelice tentativo di ingresso improvviso nel porto di Trapani, ove il console Publio Appio Claudio supponeva di poter sorprendere la flotta cartaginese. Questa uscì invece dal porto molto celermente e, dispostasi in posizione tatticamente favorevole, costrinse le navi romane a combattere sottocosta, con scarsa acqua di manovra ed il costante rischio di andare in secca: delle navi romane, 93 vennero catturate con i relativi equipaggi, mentre solo una trentina riuscì a salvarsi. Come se non bastasse, a quel disastro ne seguì immediatamente uno ancora maggiore, occorso alla seconda flotta inviata dal Senato in Sicilia al comando dall'altro console Lucio Giunio Pullo: una violenta tempesta provocò al largo di Eraclea Minoa un naufragio di spaventose dimensioni: vennero perse 120 navi da guerra e quasi 800 onerarie.

Questa impressionante sequenza di perdite determinò una seconda pausa nelle operazioni navali romane contro i Cartaginesi, analogamente a quanto era accaduto nel biennio 252-251, anche se questa volta i Romani ebbero bisogno di un tempo più lungo per riprendersi: e ciò risulta perfettamente comprensibile, soprattutto se si tiene conto della necessità di compensare la perdita di un così elevato numero di equipaggi.

Nel quinquennio 248-243, pertanto, Roma mantenne solo una flotta di circa 60 navi per la sicurezza delle coste d'Italia e del flusso di rifornimenti marittimi necessari alle forze schierate in Sicilia. Mentre maturava lentamente la ricostituzione delle risorse umane necessarie per poter autorevolmente riprendere l'iniziativa nella guerra navale, i Romani vollero studiare le particolarità costruttive della nave cartaginese particolarmente agile e veloce che era stata catturata ad Annibale Rodio nel 250 davanti al porto di Lilibeo. In tal modo, essi si predisposero a replicare quel modello nella costruzione delle successive quinqueremi.

Nel 242 venne infine deciso di approntare una nuova forza navale da inviare nelle acque della Sicilia occidentale, area in cui si erano ritirate tutte le forze puniche presenti nell'isola: i Cartaginesi mantenevano infatti il possesso di Lilibeo e Trapani, con poderose forze dislocate sul monte Erice sotto il comando di Amilcare Barca (padre di Annibale).

Secondo Polibio, questo terzo avvio della lotta per la supremazia navale ebbe realmente il carattere di una lotta per la sopravvivenza, tanto che - in considerazione delle insufficienti risorse dell'erario - i cittadini più benestanti si autotassarono per finanziare la costruzione e l'armamento delle nuove unità, nell'intesa che essi sarebbero stati risarciti alla conclusione della guerra [71]. Venne in tal modo allestita una nuova flotta di duecento quinqueremi, costruite a regola d'arte in modo da possedere, finalmente, qualità evolutive non inferiori a quelle del nemico.

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VIII. VITTORIA NAVALE DELLE EGADI

Il console Caio Lutazio Catulo, comandante della nuova forza navale romana, lasciò Roma all'inizio dell'estate (242), facendo vela per le acque della Sicilia occidentale con 300 navi da guerra (incluse le 200 nuove quinqueremi) e 700 onerarie [72]: giunto inatteso in quell'area, in assenza della flotta cartaginese, si impadronì immediatamente del porto di Trapani e della rada di Lilibeo. Quindi egli pose l'assedio alla città di Trapani, mantenendo nel contempo una costante vigilanza sul mare, in considerazione del possibile repentino arrivo della flotta punica. Il console volle comunque riservare la massima attenzione agli equipaggi navali, convinto che un risultato risolutivo avrebbe potuto essere conseguito solo attraverso una schiacciante vittoria in mare: sottopose pertanto gli equipaggi ad esercitazioni giornaliere, assicurandosi ch'essi venissero adeguatamente addestrati al duro impegno che li attendeva. Egli dispose inoltre ch'essi fossero oggetto di ogni cura nel vitto, ma che la loro preparazione proseguisse senza interruzioni anche nel successivo inverno, dovendosi evitare di lasciarli in ozio.

I Cartaginesi, avuta notizia dell'arrivo della nuova flotta romana, diedero l'incarico di combatterla al loro ammiraglio Annone, che doveva recarsi nelle acque sicule al comando di una grossa spedizione navale intesa a fornire tutto il supporto logistico necessario per mantenere in piena efficienza le truppe dell'Erice. La flotta punica, costituita da 400 navi (250 unità da guerra e le rimanenti onerarie), venne pertanto caricata con grandi quantità di rifornimenti e di armi per Amilcare.

Annone, salpato da Cartagine sul finire dell'inverno (241), si portò subito all'isola di Marettimo, intenzionato a proseguire direttamente verso l'Erice, passando a nord di Levanzo ed approdando sul litorale a nord di Trapani [73] per non farsi scoprire dai Romani, in modo da liberarsi del carico ed imbarcare altri combattenti prima di affrontare la flotta nemica. La forza navale punica venne tuttavia immediatamente avvistata, già nelle acque di Marettimo: evidentemente i Romani non avevano trascurato di mantenere una continua sorveglianza dell'area delle Egadi, anche se non era ancora iniziata quella che veniva normalmente considerata la stagione della navigazione.

Essendo stato prontamente informato dell'arrivo dei Cartaginesi e della consistenza della loro formazione navale, Lutazio Catulo intuì facilmente le intenzioni del nemico [74] (tenuto conto della presenza di un elevato numero di navi onerarie e delle evidenti esigenze logistiche delle forze cartaginesi assediate) e fece subito uscire la flotta romana, portandola alla fonda nelle acque dell'isola di Favignana. Il Romano aveva voluto prendere egli stesso il mare sebbene ancora sofferente per una ferita riportata durante i combattimenti che si erano svolti davanti a Trapani (una freccia gli aveva trapassato la coscia, ed egli era stato salvato a stento dai suoi mentre i nemici stavano per circondarlo). Il dolore dovrà poi costringerlo a dirigere le operazioni rimanendo per lo più in lettiga ed esercitando le sue funzioni di comando per il tramite del suo legato, il pretore Quinto Valerio Faltone [75] (che divenne poi console nel 239).

Le due flotte contrapposte rimasero ferme nei rispettivi ancoraggi per tutta la notte. All'alba del giorno seguente (10 marzo, secondo il conteggio degli storici romani) le condizioni meteorologiche erano alquanto perturbate: si era alzato un vento teso da ponente ed il mare stava montando considerevolmente, con onda viva e frangenti. In tale situazione ad essa favorevole, la flotta punica era salpata da Marettimo, aveva sciolto tutte le vele e, approfittando del vento in poppa, aveva iniziato a trasferirsi ad alta velocità in direzione dell'Erice.

Lutazio Catulo assunse a quel punto una decisione coraggiosa: anche se la direzione del vento e del mare era tale da metterlo in condizioni nettamente sfavorevoli, volle portare subito la sua flotta contro quella nemica, per evitare che questa riuscisse a rifornire le truppe a terra, ed anche per non doverla poi affrontare alleggerita e ritemprata dall'imbarco di altri combattenti. Egli diede pertanto alla sua flotta l'ordine di salpare e, confidando nella buona tenuta al mare delle navi e nella sperimentata perizia degli equipaggi, la fece navigare con vento e mare in prora (al mascone sinistro), in modo da intercettare la rotta dei Cartaginesi. Poi, schierate le navi su di una linea di sbarramento, diede l'ordine di approntarsi al combattimento.

Annone, resosi conto che la flotta avversaria gli tagliava la strada, negandogli anche la possibilità di sottrarsi al combattimento, fece serrare le vele ed abbattere gli alberi, trovandosi subito dopo in posizione di ingaggio.

Lo schieramento tattico delle due flotte era, secondo Polibio, l'esatto contrario di quello registrato nella battaglia navale di Trapani. Ciò potrebbe lasciar supporre che parte delle navi puniche vennero a trovarsi pressate sottocosta, con scarsa libertà di manovra: in tal caso dovrebbe trattarsi delle coste dell'isola di Levanzo e forse anche di quella di Favignana. Le condizioni delle due flotte erano, anch'esse, a tutto vantaggio dei Romani: questi, infatti, avevano fatto uscire in mare le loro navi predisposte in modo ottimale alla battaglia navale, avendo, in particolare, sbarcato preventivamente ogni peso superfluo per consentire le migliori prestazioni della propulsione a remi (la sola usata in combattimento), in termini di velocità e di manovrabilità; i Cartaginesi avevano invece le navi appesantite dal carico trasportato, dalle scorte di bordo e da tutte le attrezzature ed altri materiali necessari per la navigazione d'altura a vela.

Il combattimento fu di breve durata. Gli equipaggi romani, perfettamente addestrati, prestarono un servizio eccellente [76] e dettero prova di straordinario valore [77]. I Cartaginesi vennero molto presto ridotti all'impotenza e privati della maggior parte delle loro unità. Annone, vistosi irrimediabilmente sconfitto, invertì la rotta e fu il primo a prendere la fuga, seguito poi da alcune altre unità scampate al disastro: avendo sciolto nuovamente le vele, i fuggitivi si allontanarono in direzione di Marettimo, anche questa volta aiutati dal vento che - per loro fortuna - era nel frattempo girato.

Lutazio Catulo condusse invece la sua flotta, con tutte le navi catturate, nel porto di Lilibeo. Il bilancio complessivo della battaglia è riportato in modo completo e concorde dalle fonti romane, Eutropio ed Orosio [78], che riportano i dati che dovevano comparire nel perduto libro XIX di Tito Livio (mentre i dati di Polibio sono solo parziali [79] e quelli di Diodoro Siculo - su di un frammento incompleto - risultano incoerenti con la resa dei Cartaginesi [80]): della flotta punica, 125 navi vennero affondate e 63 catturate con i relativi equipaggi, 32 mila uomini furono fatti prigionieri e 13 o 14 mila perirono in battaglia; della flotta romana vennero affondate solo 12 unità. Dalle navi puniche catturate, inoltre, venne tratto un immenso bottino: oro, argento ed altri generi pregiati, tutti valori presumibilmente destinati dai Cartaginesi a sovvenzionare la prosecuzione della guerra in Sicilia, oltre al sostentamento della flotta.

Poco dopo la vittoria navale di Lutazio Catulo, Amilcare Barca si rassegnò a richiedere la pace, visto che i Romani erano divenuti padroni assoluti del mare e non avrebbero evidentemente più consentito a Cartagine di mantenere le proprie forze in Sicilia [81]. Il comandante romano aderì alla richiesta, sottoponendo poi le clausole del trattato di pace all'approvazione del Senato: la commissione dei dieci senatori inviata da Roma sul posto (secondo la prassi che verrà seguita alla conclusione di tutte le guerre d'oltremare della Repubblica) confermò la validità del patto, aggravando tuttavia leggermente le condizioni imposte a Cartagine: questa doveva, in particolare, ritirarsi dalla Sicilia e dalle relative isole minori, pagare un pesante indennizzo e restituire tutti i prigionieri senza riscatto [82]. I Romani, come acutamente scrisse Floro, ritennero quindi che non fosse più necessario attaccare in Africa la città nemica, visto che Cartagine era ormai stata distrutta sul mare [83].

Si concluse in tal modo, come diretta conseguenza della splendida vittoria navale delle Egadi, la prima guerra Punica, che i Romani ricorderanno come un periodo di ventiquattro anni di battaglie navali [84]. In riconoscimento del determinante risultato acquisito da Caio Lutazio Catulo - dominatore del mare ("possessor pelagi") [85] - il Senato gli conferì l'onore del trionfo navale [86].

L'argomento non potrebbe essere adeguatamente concluso senza citare il bilancio che ne trasse Polibio. "La guerra sorta fra i Romani e i Cartaginesi per il possesso della Sicilia ebbe così termine ... dopo essere durata ventiquattro anni continui; fu, delle guerre delle quali abbiamo notizia, la più lunga, la più grave, la più continua. In essa, ... una volta i due contendenti misero in campo più di cinquecento quinqueremi, un'altra poco meno di settecento. In tale guerra i Romani perdettero quasi settecento quinqueremi, comprese quelle distrutte nei naufragi, i Cartaginesi ne perdettero quasi cinquecento. ... Se si tien conto ... delle differenze fra le quinqueremi e le triremi delle quali si servirono i Persiani contro i Greci, ... si conclude che mai forze di tale entità discesero a combattere in mare. Da tutto questo risulta evidente ... che ... i Romani non per vicende casuali, ... ma assolutamente a buon diritto, dopo essere stati messi alla prova in tante vaste e pericolose imprese, audacemente concepirono il disegno di conseguire l'assoluta egemonia e attuarono il loro proposito" [87].

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IX. IL DOMINIO DEL MARE

Il primo confronto bellico con Cartagine, pur presentandosi a grandi linee come un conflitto per il possesso della Sicilia (come più comunemente viene ricordato), venne interpretato dai Romani soprattutto come la loro guerra per il mare. Con la sua perentoria affermazione alle Egadi, Roma pose fine alla supremazia marittima punica ed acquisì stabilmente la capacità di dominio del mare. Poiché questa suggestiva espressione della lingua italiana (direttamente derivata da possessionem maris o imperium maris) può talvolta indurre a qualche interpretazione eccessiva, conviene riferirsi alla seguente definizione lessicale: "Dominio del mare: nella guerra marittima, il controllo delle comunicazioni marittime - temporaneo, per un determinato scopo e in un determinato mare, o definitivo e generale - che uno dei belligeranti possiede, conseguenza della distruzione o della impotenza delle forze avversarie" [88].

Gli eventi che occorsero subito dopo la prima guerra Punica dimostrano chiaramente che i Romani erano già mentalmente predisposti a sfruttare pienamente la nuova capacità acquisita ed a tutelare con vigile attenzione ogni loro possibile interesse sul mare, nel contesto più ampio del potere marittimo (navi da guerra, marina mercantile, coste ed aree marittime, porti, cantieri navali, ecc.). Roma riuscì, innanzi tutto, ad estendere subito il proprio dominio sulla Sardegna, cogliendo l'occasione di una violazione cartaginese del trattato di pace per farsela consegnare [89]. Il Senato inviò in quello stesso periodo un'ambasceria a Tolomeo, re d'Egitto, promettendogli di aiutarlo nella guerra contro Antioco, re di Siria. L'offerta, di cui il monarca non si avvalse perché stava per cessare le operazioni [90], denota una precoce propensione romana ad impegnarsi nelle acque del Mediterraneo orientale. I Romani continuarono nel contempo a sviluppare il proprio commercio marittimo. Il volume di affari collegato con il traffico mercantile doveva essere, a Roma, estremamente fiorente: sappiamo per esempio che i senatori andarono su tutte le furie quando, nel 218, il tribuno della plebe Quinto Claudio, riuscì a fare approvare una legge - di evidente sapore demagogico - che vietava loro di armare più di una nave e di superare la stazza di 300 anfore (circa 8 tonnellate), poiché ogni attività commerciale doveva essere considerata indecorosa per i membri dell'ordine senatorio [91]. I Romani diedero quindi due pregevoli saggi delle proprie capacità di gestire delle crisi oltremare e di reagire prontamente alle illegalità, con l'invio di consistenti forze navali nelle acque della penisola balcanica, dalla Dalmazia alla Grecia, in occasione delle due prime guerre Illiriche [92], piccoli capolavori di uso del potere marittimo associato alla diplomazia.

Ma la migliore e più diretta riprova della capacità romana di dominio del mare venne fornita dal secondo confronto bellico con Cartagine. Fin dall'inizio della guerra, mentre Annibale procedeva dalla Spagna verso l'Italia seguendo la via terrestre - la sola consentitagli dalla presenza navale di Roma -, le forze romane, suddivise fra i due consoli, si mossero con grande dinamismo, avvalendosi soprattutto delle proprie flotte per intercettare le linee di comunicazioni fra l'Africa e l'Italia e fra la Spagna e l'Italia [93]. Dall'esame dei primi due anni di guerra, colpisce lo stridente contrasto fra la grande sicurezza con cui i Romani si mossero sul mare e le crescenti difficoltà incontrate sul terreno, nella loro stessa Italia, di fronte all'apparente invincibilità dell'esercito condotto da Annibale. Si disse che la salvezza dei Romani, dopo la disfatta di Canne, fu tutta nel temporeggiare: si trattò infatti della decisione consapevole di chi sapeva guardare lontano e, confidando nei tempi lunghi della strategia, operò le sue scelte basandosi estensivamente sul potere marittimo; e questo si dimostrò "un fattore determinante" [94] per contenere, contrastare e finalmente rimuovere ogni minaccia punica.

Nella rimanente parte del periodo transmarino, Roma superò una ininterrotta serie di guerre, sempre condotte in mare e al di là del mare, con il concorso di attività marittime che sarebbe troppo lungo qui riepilogare. In ogni caso, pur non avendo né la costituzione fisica dei feroci guerrieri barbari, né la potenza numerica degli sterminati eserciti orientali, né le antichissime tradizioni marinare dei Punici, né la perizia strategica vantata dagli Elleni, né forze armate (navali e terrestri) permanenti e professionali come ogni potenza militare, né una gestione unitaria del potere come le grandi monarchie e gli altri Stati con un governo assoluto, né un preventivo disegno espansionista come molti dei propri antagonisti, i Romani riuscirono ad estendere progressivamente la propria area d'influenza oltremare, fino ad interessare tutti i litorali bagnati dal Mediterraneo. Ed essi posero infine tale mare, per intero, sotto il proprio pieno controllo e sotto le proprie leggi (per la prima ed unica volta nella Storia), e lo mantennero per tutta la durata dell'Impero in quelle condizioni di stabilità e di libertà di navigazione che consentirono la diffusione e l'affermazione della civiltà romana.

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X. CONCLUSIONI

Prima di trarre le conclusioni, si impone una breve digressione in merito a quella linea di pensiero (serpeggiante un po' ovunque, con prevalenza nel mondo anglosassone) secondo cui i Romani sarebbero stati del tutto privi di familiarità con il mare ed avrebbero transitoriamente superato la loro avversione solo quando costretti dagli eventi, in mancanza di qualsiasi altra alternativa, ricorrendo comunque all'esperienza di comandanti ed equipaggi non romani, provenienti dalle ben più qualificate marinerie d'Italia e del mondo ellenico. Innanzi tutto dovremmo chiederci come mai i Romani stessi considerarono autentici Romani il campano Nevio, l'apulo Ennio, il reatino Varrone, l'arpinate Cicerone e poi perfino i transpadani Virgilio e Tito Livio, mentre questo moderno snobismo barbarico non sa trattenersi dall'arricciare il naso nell'apprendere che le vele di una nave romana vennero sciolte anche da qualche marinaio proveniente da Anzio, o da Terracina, o dalle coste della Campania Felix, predilette dai Quiriti (lo stesso ragionamento va esteso, nel periodo dell'Impero, ai marinai provenienti da qualsiasi parte del Mediterraneo, visto che perfino gli imperatori di Roma furono, in maggior parte, di origine non italiana) [95]. Occorre poi osservare che i comandanti delle flotte della Repubblica furono tutti Romani (trascurando, nel I secolo a.C., la "scandalosa" decisione di Verre di nominare un Siracusano al comando della flotta siciliana [96]), ed essi non avevano alcuna propensione a delegare le funzioni di propria competenza; e, poiché le decisioni a livello strategico sulla gestione del potere marittimo risalivano evidentemente al massimo livello politico di Roma (ai consoli e soprattutto al Senato), dobbiamo riconoscere che l'utilizzo del mare e delle flotte era indiscutibilmente soggetto ad una volontà esclusivamente romana. Allo stesso modo, tutto romano fu l'impulso per lo sviluppo dei traffici commerciali marittimi; tipicamente romano fu il pragmatico sfruttamento di ogni possibilità di trasporto navale, così come il perfezionamento delle costruzioni navali con l'introduzione di soluzioni sofisticate ed innovative (come quelle rilevate sulle stupefacenti navi di Nemi, ed ora riscontrabili con le tecniche dell'archeologia subacquea anche su altri scafi); assolutamente romana fu l'inventiva e la concreta capacità realizzatrice di imponenti opere marittime (costruzione di grandiosi porti artificiali, scavo di canali navigabili, creazione di una vera e propria rete di fari sulle coste mediterranee ed oceaniche, impianto di parchi marini e di estesi complessi di vasche per l'allevamento dei pesci, ecc.); squisitamente romana fu la voglia di godere della bellezza e delle piacevolezze del mare costruendosi le ville quanto più possibile vicine alla riva, lungo le coste delle regioni più amene o nell'incantata tranquillità delle isole. Non sembra quindi sufficiente supporre che vi fosse presso i Romani solo una rassegnata accettazione di ineludibili impegni marittimi, essendovi invece l'evidenza di una profonda conoscenza dell'ambiente marittimo, di una intima confidenza con esso e di un vero e proprio amore per il mare. Detto questo, possiamo senz'altro adottare il parere espresso da Michel Reddé, che non esita a classificare quei pregiudizi come dei "clichés, dont la fausseté est éclatante" [97].

Dall'esame degli aspetti navali e marittimi della storia di Roma nel periodo antecedente la prima guerra Punica, emerge con sufficiente chiarezza come i Romani avessero già da tempo costituito una piccola marina da guerra ed acquisito una discreta esperienza navale. Inoltre, essendo in possesso di una marina mercantile in rapido accrescimento e di traffici navali di rilevante interesse strategico, essi dovevano necessariamente prefiggersi l'acquisizione di una piena autosufficienza nella tutela dei propri interessi marittimi. Ma poiché questo obiettivo non poteva essere perseguito senza incontrare l'ostilità di Cartagine, Roma doveva conquistarsi la libertà di navigazione sottraendo alla potenza navale punica la supremazia in mare. E per ottenere tale risultato, il cui conseguimento non avrebbe potuto essere né rapido né indolore, essa doveva far compiere alla propria marina da guerra un vistosissimo salto di qualità ed impegnare ingentissime risorse.

La ricostruzione del conflitto - basata prevalentemente su Polibio, ma anche confortata dalle altre più frammentarie fonti disponibili - risulta coerente con le premesse. Il dominio del mare fu perseguito dai Romani con straordinaria determinazione, a prezzo di notevolissime perdite (fra 700 e 800 navi da guerra, di cui oltre 600 affondate in occasione di tempeste), e fu conseguito nell'arco un ventennio (261-241), a coronamento di un gigantesco ed indomabile impegno sul piano prettamente navale, dopo aver inflitto alla rivale cinque sconfitte navali (contro una sola subita) e la perdita di circa 530 navi da guerra (oltre 250 affondate; le altre catturate).

I successivi sviluppi della storia di romana appaiono confermare anch'essi la credibilità di quella ricostruzione, risultando come la naturale continuazione della linea politica che si era orientata con decisione in direzione del mare e che aveva caparbiamente lottato per affermarsi su di esso. I grandi eventi marittimi della fase dell'espansione transmarina lasciano infatti comprendere che, anche quando pressati da gravissime emergenze interne, i Romani continuarono a cogliere tutte le occasioni favorevoli per consolidare il proprio potere marittimo; dopo essersi confrontati per mare con tutte le maggiori - e certamente non remissive - potenze navali dell'epoca, essi riuscirono a pervenire al dominio dell'intero Mediterraneo ed a creare in quel bacino un Impero dalle connotazioni genuinamente marittime.

In definitiva, la prima guerra Punica, così come riusciamo per ora a ricostruirla, appare inserirsi in modo del tutto armonico nel lungo cammino che portò il piccolo popolo dei Quiriti a diffondere la civiltà romana su tutte le sponde del mondo allora conosciuto. Essa risulta inoltre assolutamente determinante ai fini della prosecuzione di quel cammino, che sarebbe stato inconcepibile se i Romani non fossero stati in grado di affrontare i Cartaginesi e di vincerli sul mare.

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Note:

[ 1] Flor. I, 18, 1 e I, 47, 1.

[ 2] Polyb., I, 10-64 e III, 27.

[ 3] Pietro Janni, Il mare degli Antichi, edizioni Dedalo, Bari, 1996; pag. 275.

[ 4] Cic., De off., III, 32.

[ 5] Domenico Carro, Classica (ovvero "Le cose della Flotta") - Storia della Marina di Roma - Testimonianze dall'antichità, Rivista Marittima, Roma, 1992-2003 (12 volumi).

[ 6] Domenico Carro, Maritima - La Marina di Roma repubblicana, Forum Editore, Roma, 1995.

[ 7] Teodoro Mommsen, Storia di Roma, Dall'Oglio editore, Milano, 1963 (8 volumi); vol. II, pagina 228.

[ 8] Cic., De rep., II, 5.

[ 9] Liv., V, 44.

[10] Mommsen (op. cit.); vol. I, pagine 68-69 e 128.

[11] Enn., Ann., II, fragm. 85-86; Liv., I, 33; Cic., De rep., II, 18; Flor., I, 4.

[12] Dionys. Hal., III, 44, 1-4.

[13] Liv., I, 54.

[14] Plut., Pomp. 50.

[15] Antonio Flamigni, Il potere marittimo in Roma antica dalle origini alla guerra Siriaca, Rivista Marittima (Supplemento al n. 11, Novembre 1995), Roma, 1995; pagg. 23-24.

[16] Polyb., III, 22.

[17] Liv., II, 9-12 e II, 34; Dionys. Hal., V, 26.

[18] Liv., VII, 27; Polyb., III, 24.

[19] App., Samn., 7.

[20] Polyb., I, 83; App., Lib., 5.

[21] Liv., XXI, 2; Polyb., II, 13; App., Lib., 6.

[22] Polyb., II, 8.

[23] Plaut., Stich., 402-405 e 411-414.

[24] Polyb., III, 23; Liv., IV, 34.

[25] Liv., V, 28; Plut., Camil., 8.

[26] Liv., VII, 25-26.

[27] Liv., VIII, 12-14; vedasi anche Plin., N.H., XVI, 8 e Strabo., V, 3,5.

[28] Liv., IX, 30.

[29] Plin., N.H., XVI, 8.

[30] Enrico Clausetti, Navi e simboli marittimi sulle monete dell'antica Roma, Supplemento della Rivista Marittima Dicembre 1932-XI, Ministero della Marina - Tipo-litografia dell'Ufficio di Gabinetto, Roma, 1932; pag.5-6.

[31] Liv., IX, 38.

[32] Theophr., H.P., V, 8.

[33] Liv., Per., 11; Val. Max., I, 8, 2.

[34] Liv., Per., 11-12; Dio. C., I-XXXIV, fragm. 145; App., Samn., 7; Dionys. Hal., XIX, 4-6; Plut., Pyrr. 13.

[35] Val. Max., III, 7, 10; Iustin., XVIII, 2.

[36] Liv., Per., 14-15; Oros., IV, 3, 1-2.

[37] Cato., Orig., IV, fragm. 9 (Les Belles Lettres).

[38] Polyb., I, 10.

[39] Iohan. Lyd., De magistr., I, 27.

[40] Mommsen (op. cit.); vol. II, pag. 234.

[41] Amp., XLVI.

[42] Polyb., I, 20.

[43] Diod., XXIII, 2.

[44] Frontin., I, 4, 11; Polyb., I, 11.

[45] Caes., B.G., V, 1-2.

[46] Polyb., I, 21.

[47] Janni (op. cit.); pag. 284.

[48] Vell., II, 79, 1-2.

[49] Polyb., I, 22.

[50] Frontin., II, 3, 24.

[51] Plin., N.H., VII, 209.

[52] App., B. civ., V, 118.

[53] Polyb., I, 23.

[54] Eutr., II, 20; Polyb., I, 24.

[55] Liv., Per., 17; Fasti triumph., an. CDXCIII.

[56] Plin., N.H., XXXIV, 20; Sil., VI, 663-664; Quintil., Inst. orat., I, 7, 12.

[57] Cic., De senect., 13, Flor., I, 18, 10; Val. Max., III, 6, 4; Amm., XXVI, 3.

[58] Liv., Per., 17; Flor., I, 18, 15; Val. Max., V, 1, 2; Sil., VI, 671-672; C.I.L., VI., 1287.

[59] Polyaen., Strat., VIII, Caius; Polyb., I, 25.

[60] Naev., B. poen., IV, fragm. 30; Domenico Carro, La Corona navale, da "Notiziario della Marina", periodico mensile a carattere professionale, anno XLII, n.7, Roma, 1995.

[61] Oros., IV, 8, 5.

[62] Polyb., I, 25-28; Oros., IV, 8, 6.

[63] Liv., Per., 17; Polyb., I, 29-31; Flor., I, 18, 17-20; Eutr., II, 21; Oros., IV, 8, 7 - 9, 1; Diod., XXIII, 11-12; Dio. C., I-XXXIV, fragm. 46 e 148.

[64] Liv., Per., 18; Polyb., I, 32-34; Flor., I, 18, 21-23; Oros., IV, 9, 2-3; App., Lib., 3; Sil., VI, 339-472.

[65] Liv., XLII., 20, 1; Polyb., I, 36-37; Eutr., II, 22; Oros., IV, 9, 5-8; Diod., XXIII, 18.

[66] Polyb., I, 38; Flor., I, 18, 27-28; Diod., XXIII, 18.

[67] Polyb., I, 39; Eutr., II, 23; Oros., IV, 9, 10-11; Diod., XXIII, 19.

[68] J. H. Thiel, Studies on the history of Roman sea-power in republican times, North-Holland Publishing Company, Amsterdam, 1946; pagine 443-445.

[69] Polyb., I, 41-47; Diod., XXIV, 1.

[70] Polyb., I, 49-55; Diod., XXIV, 1-4; Frontin., II, 13, 9; Eutr., II, 26; Oros., IV, 10, 3.

[71] Polyb., I, 59.

[72] Diod., XXIV, 11; Eutr., II, 27; Oros., IV, 10, 5-7.

[73] Giuseppe Baldacchini, La battaglia navale delle Egadi, dalla "Rivista Marittima", Roma, Maggio 1998; pagina 67 e seg.

[74] Polyb., I, 60.

[75] Val. Max., II, 8, 2.

[76] Polyb., I, 61.

[77] Eutr., II, 27.

[78] Oros., IV, 10, 7; Eutr., II, 27.

[79] Polyb., I, 61: 70 navi puniche catturate, 50 affondate, oltre 10 mila prigionieri.

[80] Diod., XXIV, 11: 117 navi perdute dai Cartaginesi (di cui 20 con gli equipaggi) e 6000 (o 4040) prigionieri; 80 navi perdute dai Romani (30 completamente distrutte e 50 irrimediabilmente danneggiate).

[81] Corn. Nep., XXII, 1, 3; Val. Max., VI, 6, 2.

[82] Polyb., I, 62-63 e II, 27; App., Sic., 2.

[83] Flor., I, 18, 37.

[84] Liv., IX, 19.

[85] Sil., VI, 687.

[86] Val. Max., II, 8, 2.

[87] Polyb., I, 63; da "Polibio, Storie", a cura di Carla Schick, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1988.

[88] Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1970.

[89] Polyb., I, 88 e II, 27; App., Lib., 5.

[90] Eutr., III, 1.

[91] Liv., XXI, 63.

[92] Polyb., II, 8-12.

[93] Liv., XXI, 49-50.

[94] Alfred T. Mahan, L'influenza del Potere Marittimo sulla Storia, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1994 (titolo originale: The influence of Sea Power upon History; traduzione dall'inglese di Antonio Flamigni).

[95] Massimo Pallottino, Storia della prima Italia, Rusconi Libri, Milano, 1994; pagine 190-192.

[96] Cic., Act. II in Verr., V, 31-32 e 52.

[97] Michel Reddé, Mare Nostrum - Les infrastructures, le dispositif et l'histoire de la Marine Militaire sous l'Empire Romain, École Française de Rome, Roma, 1986; pagine 135-136.

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