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DOMENICO CARRO

ORBIS MARITIMUS

    La geografia imperiale e la grande strategia marittima di Roma    

RECENSIONE

di Piero Pastoretto
I Quaderni della Società di Cultura e Storia Militare, 2019-2021.


L'Ammiraglio Carro, Socio onorario della SCSM, è forse la più nota autorità italiana nel settore della storia militare marittima. La sua specializzazione è la marineria romana dell'età repubblicana e imperiale e le sue attività culturali e pubblicazioni sono numerosissime.

Il volume che qui esaminiamo non riguarda però la marina da guerra di Roma antica, né qualcuna delle numerose battaglie combattute dalle poliremi romane, ma la grande strategia marittima dell'Impero dalla Pax Augusta sino all'età basso-imperiale.

Tutti concordiamo che la storiografia romana, almeno quella a noi più familiare sin dai lontani studi scolastici, si qualifica come eminentemente "terrestre" in quanto, sia nelle sue classiche indagini politico-economiche, sia nei suoi interessi rivolti alla strategia militare adottata dai Cesari, essa tratta in maniera soltanto rapsodica l'elemento mare.

Ora, benché tale sia la situazione di fatto della storiografia moderna, non vi è mente sana che non sia costretta a riconoscere che la visione della Repubblica e dell'Impero romani come una potenza economico-militare eminentemente terrestre è assai riduttiva, poiché nella realtà storica Roma era fin dalla fine del II secolo a.C. una potenza economico-militare marittima almeno tanto quanto la Gran Bretagna del XIX secolo.

È raro ad esempio trovare in tanti studi anche quotati la più semplice e banale delle constatazioni, che invece è di una valenza unica nella storia d'Europa: ci riferiamo all'osservazione che dal I fino ad almeno il IV secolo dopo Cristo tutte le sponde del Mediterraneo, dall'Anatolia alle Colonne d'Ercole, dal Golfo del Leone alla Sirte, erano sotto un medesimo potere politico. Cosa mai prima verificatasi, e soprattutto mai più dopo, con tutti i vantaggi non soltanto commerciali ed economici, ma anche sociali e culturali che ne conseguirono. Una vera Età dell'oro durante la quale, su quelle sponde insanguinate già da un millennio di guerre sul mare, e che sarebbero state ulteriormente insanguinate per i millecinquecento anni successivi, regnava la pace del Mare nostrum [1]. Meravigliosa creazione geopolitica che, ripetiamo in pieno accordo con l'Autore, fu iniziata già all'epoca della Repubblica con una spontanea ma anche lungimirante e strategica vocazione verso altre sponde mediterranee che non fossero quelle italiche e che i romani stessi definirono transmarina.

ln conclusione il teatro navale è stato perlopiù negletto tanto dagli storici quanto dai romanisti e il volume di Domenico Carro apporta perciò una novità documentale di cui si avvertiva il bisogno.

Qualunque strategia di geopolitica marittima si articola in due grandi settori: uno militare e uno civile.

Il primo agisce al fine della conservazione del dominio totale delle acque attraverso il mantenimento di robuste flotte permanenti: quattro al tempo di Augusto, diventate otto nel II secolo. Questo potere marittimo affidato agli equipaggi delle navi da guerra e alla fanteria di marina imbarcata dei classiarii, finalizzato alla sicurezza marittima dell'Impero, dei suoi commerci e approvvigionamenti strategici, si concentrava intorno a sei funzioni basilari. Funzioni che anche gli allievi del primo anno di Accademia oggi conoscono a memoria, ma che all'epoca, con due millenni di esperienza e di dottrine navali in meno, erano frutto di un pensiero altamente strategico che lascia ammirati. Queste funzioni erano, allora come oggi, la difesa di Roma e della penisola italiana; la presenza navale avanzata; la dissuasione; il dominio del mare; la proiezione di forza; l'assistenza umanitaria.

Tali funzioni, osserva l'Autore, garantivano la libera circolazione delle merci e delle navi in tutte le aree marittime su cui si estendevano le rotte commerciali dell'Impero. Rotte che non erano limitate al relativamente ridotto bacino mediterraneo, cuore pulsante dell'Impero, come i più ritengono, ma si irradiavano anche nell'Oceano Atlantico dalle isole Fortunatae (le Canarie) fino alle Haemodae (Schetland) e addirittura alla lontana Thule, l'Islanda, dove in sei diversi siti sono state ritrovate delle monete romane.

Aiutati anche da uno straordinario sviluppo delle esplorazioni, della geografia e delle sempre più precise e dettagliate carte nautiche, i Cesari (fra i quali si distinse soprattutto il tanto bistrattato Nerone) non distolsero la loro attenzione neppure dal Mar Nero e dal Mar Rosso, né dal Baltico, né tanto meno dall'Oceano Indiano sino al Capo Guardafui in Africa e al Golfo Persico in Asia, fino addirittura al remoto Mar Cinese Meridionale.

Le pregiate merci che gli intrepidi commercianti-navigatori riportavano da loro viaggi – dall'avorio africano alla giada e alle pietre preziose indiane alla seta cinese – venivano scambiate con prodotti tipici del Mediterraneo, vino e olio, e soprattutto con le assai richieste monete d'oro emesse dalle zecche imperiali, il cui valore in metallo pregiato era garantito.

Le onerarie che affrontavano tali viaggi sapevano già sfruttare i monsoni e soprattutto dovevano essere dei bastimenti oceanici di un tonnellaggio e di una robustezza eccezionali [2], dotate dai due ai tre alberi e capaci di affrontare una navigazione senza scalo in mare aperto di parecchi giorni.

Lo Stato romano da parte sua sostenne e indirizzò per secoli, anche con l'uso sapiente della diplomazia, tutta la straordinariamente complessa macchina dei commerci marittimi. Favoriva i cantieri, i noli, i mercanti, gli imprenditori e le corporazioni. Forniva la scorta militare nelle acque meno sicure, oppure una aliquota di classiarii a bordo delle unità mercantili per difenderle dai pirati. Soprattutto si occupava di colossali opere pubbliche come lo scavo di canali, l'ampliamento con nuovi moli cementizi di opere portuali già esistenti e la creazione di scali e comode basi marittime nelle coste selvagge.

Circolava già dai tempi di Plinio il Vecchio la tesi che questa mole immensa di traffici provenienti soprattutto dal levante avrebbe finito per danneggiare a morte l'Impero a causa delle incessanti emorragie di ricchezze spese per importare mercanzie di lusso sempre più richiesta a Roma. Che sia stato così non è affatto certo. Certo è invece che le entrate statali attraverso i dazi portuali e le imposte doganali sulle importazioni erano una delle voci più attive del bilancio dello Stato.

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Note

[1] Si noti bene: Mare Nostrum e non Mare Romanum, a sottolineare la mirabile politica di inglobamento (e non assorbimento) dei popoli mediterranei e non, da parte di Roma.

[2] Esistono dei documenti che parlano di bastimenti miriophoroi, capaci cioè di in carico di diecimila anfore, 500 tonnellate, in uso tra il periodo fine-repubblicano e imperiale.

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